Secondo il maestro di Shorin Ryu, Miyahira Katsuya, Motobu era alto circa 5’5” (168 cm) ma pesava oltre 200 libbre (oltre 90 Kg) in gioventù. Secondo tutti i racconti era forte come un bue e amava parlare, bere e combattere. Poi, più avanti con l’età e una volta sistemato, maturò e divenne uno dei più acclamati insegnanti di karate.
Spesso, quando Motobu tornava ad Okinawa, faceva visita a Chibana Choshin, il mio maestro. Chibana sensei ottenne negli anni numerosi riconoscimenti dopo aver fondato il suo dojo, eretto di fronte alla residenza del barone Nakajin.
Durante le numerose visite che negli anni fece al nostro dojo, io ebbi l’onore di essere uno dei pochi giovani che regolarmente chiamava per fare dimostrazioni. Il maestro Chibana disse che fu intorno al 1910 che i locali iniziarono a riferirsi a Motobu con l’appellativo di “Motobu saru”, che letteralmente significa “Motobu la scimmia”.
Il soprannome sembra derivasse non solo dal suo continuo chiacchiericcio sul come fosse in grado di sconfiggere chiunque, ma anche perché era così agile, veloce e potente che poteva virtualmente dondolare sui rami degli alberi, salire e scendere dai pali, saltare recinti e anche arrampicarsi sulle abitazioni, proprio come fanno le scimmie.
Nel 1914 chiese a Matsumora Kosaku, il grande bujin di Tomari, di accettarlo come allievo, ma la sua richiesta non venne accolta. Comunque la sua insistenza infine catturò l’attenzione di Matsumora che offrì a Motobu un impiego come inserviente presso la sua residenza. Nonostante gli sforzi per intimidire Motobu, quest’ultimo dimostrò grande umiltà pur di ottenere i suoi insegnamenti.
Matsumora gli spiegò che prima di accettare di insegnare a qualcuno, egli si accertava che il potenziale allievo fosse in grado di tenere il suo ego sotto controllo. Con una storia familiare nelle arti marziali di vecchia scuola, il giovane Motobu lavorò diligentemente nella residenza di Matsumora senza aspettarsi nulla, fino a guadagnarsi la fiducia del grande maestro. Sebbene non avesse ricevuto il permesso di frequentare una sola lezione per quasi sei mesi, Motobu riusciva spesso a spiare gli allievi di Matsumora mentre si allenavano sotto la sua guida.
Una volta il maestro scoprì Motobu proprio mentre guardava di nascosto una lezione e gli chiese di dirgli per quale motivo non avrebbe dovuto punirlo fisicamente e cacciarlo, dato che aveva tradito la sua fiducia.
Senza alcuna esitazione Choki rispose umilmente dicendo «
accetterò volentieri di essere punito fisicamente ma per favore non mi cacci». Kosaku sensei comprese infine che Motobu era pronto ad iniziare le lezioni.
Nel 1916, dopo due anni di insegnamenti ed avendo appreso molto, Matsumora suggerì al giovane Choki di iniziare un’analisi sulla sua conoscenza dell’arte. Tristemente, Motobu fraintese le intenzioni del suo insegnante e tornò a combattere al quartiere Tsuji a Naha. Chibana Choshin, ricorda Miyahira Katsuya, raccontava che fu proprio in quel periodo che la cattiva fama di attaccabrighe iniziò a diffondersi e per questo motivo anche la stessa famiglia di Motobu lo rinnegò.
Contrariamente alle scuole dell’arte della spada giapponese, trasmesse immutate per diverse generazioni, Motobu comprese che il kenpo/quanfa di Okinawa non fu mai una scienza esatta e così decise di migliorarlo. Se una tecnica era insensata, appariva oscura o non funzionava, egli la scartava oppure ne migliorava l’applicabilità.
Un giorno, davanti ad un bicchiere di awamori, Motobu mi raccontò una storia interessante su Tokumine che mi è sempre rimasta in mente. Secondo il racconto, bushi Tokumine entrò con veemenza nel cortile della residenza di un Cinese illustre nel villaggio di Kume a Naha mentre vi si teneva l’allenamento quotidiano di quanfa.
Brandendo in mano una spada Tokumine gridò «
chiunque pratichi quanfa faccia un passo avanti o sparisca da qui prima che comincino i problemi!» All’istante tutti fuggirono come se ci fosse stato un terremoto, lasciando solo un uomo che disse «
io sono quello che stai cercando». Tokumine allora mise via la spada, si scusò per l’essersi dimostrato così brusco e disse «
volevo solo essere sicuro di poter imparare da qualcuno che non avesse paura di morire per quello in cui crede!»
Nonostante la sua natura aggressiva, Motobu riteneva che il karate fosse una tradizione difensiva che funzionava al meglio se usata di sorpresa contro un malintenzionato inesperto.
Quel che maggiormente ricordo di lui è la sua propensione a fare qualsiasi cosa che potesse migliorare le sue abilità e la pratica. Non mancano storie affascinanti a testimonianza del suo inarrestabile impegno.
Una delle ragioni per cui ebbe difficoltà a fondare un “
ryuha” consisteva nel suo metodo di allenamento in continuo cambiamento (inteso nel senso di miglioramento). La sua idea di karate come “esperienza vivente” era, nell’ambito di una struttura sociale così inflessibile, decisamente poco giapponese. In altre parole mal si adattava al paradigma giapponese del budo e per questo motivo non fu mai ampiamente adottata dai poteri forti.
Molti pensano che gli esperti locali si guardassero dal criticare apertamente o dallo sfidare Motobu perché temevano ritorsioni da una famiglia ricca, importante ed influente.
C’erano quelli che desideravano farsi vedere spalla a spalla con una persona “famosa”, altri erano sinceramente affascinati dalla sua prestanza fisica. Per quel che mi riguarda, ero attratto dalla sua profonda competenza. Anche se il maestro Chibana aveva qualche riserva su di lui, posso dire che ne ammirava le abilità innovative, la prestanza fisica, la tenacia e l’integrità.