di Patrick McCarthy
traduzione in italiano di Marco Forti
- SECONDA PARTE -
Storia moderna
Con il periodo
Meiji (1868-1912) il Giappone usciva dall’epoca buia del feudalesimo e, per la prima volta nella sua lunga storia feudale, si trovava privo di forza miliare. Il governo
Meiji, fortemente ambizioso e ansioso di prendere posto tra le potenze mondiali, promosse un progetto di militarizzazione e tenne a battesimo la nascita del
budo moderno. Basandosi sulle regole di vita del guerriero
samurai feudale, il
budo moderno (in particolare
judo e
kendo in quel periodo) forniva il veicolo culturale perfetto attraverso il quale incanalare quella tipologia di conformismo tipicamente giapponese ed il crescente nazionalismo. Nel corso di quel periodo, caratterizzato dal militarismo in forte ascesa, la propaganda sciovinista descriveva il
budo come «
la via attraverso la quale uomini comuni acquisivano un coraggio straordinario» e con ciò attirò l’attenzione di un’intera generazione di futuri guerrieri.
I primi tentativi di sviluppare uno standard di riferimento per la graduazione nel
kendo e nel
judo rispondevano alla crescente preoccupazione di mettere a confronto atleti di diverso livello di esperienza nelle competizioni promosse dal
Dai Nippon Butokukai. Fu
Kano Jigoro, fondatore del
judo, tra i più creativi innovatori del
budo, che, dividendo gli allievi/combattenti in tre categorie:
jokyu (gradi avanzati),
chukyu (gradi intermedi) e
gekyu (principianti) intravide la necessità non solo di stabilire uno standard equo per le competizioni ma anche per la trasmissione delle conoscenze e la valutazione delle prestazioni. In tal modo stabilì una base universalmente accettata per differenziare gli allievi avanzati dai principianti, che denominò sistema
dan/kyu.
I gradi
dan, basandosi su uno specifico sistema di graduazione, venivano conferiti a quei candidati che risultavano possedere tutti i requisiti richiesti per i gradi
kyu. I candidati che superavano la prova venivano definiti
yudansha (con gradi
dan) mentre i gradi
kyu, che rappresentavano i vari livelli di competenza inferiori a quelli previsti per i
dan, venivano definiti
mudansha (coloro che non hanno ricevuto
dan). La pratica di rilasciare diplomi di graduazione risale all’agosto del 1883 quando, per la prima volta,
Kano sensei conferì il
menkyo (licenza) di primo
dan ai suoi allievi
Tomita Tsunejiro e
Saigo Shiro. Fu però solo nel 1907 che il maestro
Kano decise di sostituire la fascia con cui veniva tenuta chiusa la giacca del
dogi con il
kuro-obi (cintura nera) che rimane ancora oggi lo standard. Fu questo cambiamento a sancire l’uso, per la prima volta, di una distinzione visiva per indicare differenze di grado. Il sistema
dan/kyu e l’uso della
kuro-obi (cintura nera) vennero riconosciuti dal
Dai Nippon Butokukai e divennero lo standard utilizzato in tutte le forme di
budo.
Nel tentativo di sviluppare criteri aggiuntivi per il rilascio di qualifiche di insegnamento, il
Butokukai istituì il primo programma per l’acquisizione del diploma di
shihan (insegnante). I titoli che individuavano gli
shihan con maggiore esperienza erano
hanshi (insegnante esemplare) e
tasshi, termine in seguito sostituito da
kyoshi (insegnante esperto). Fu solo nel 1934, l’anno successivo a quello in cui
karate-do divenne ufficialmente parte del
budo giapponese, che venne introdotto un terzo titolo denominato
renshi (abile esperto) per rispondere alle esigenze di differenziazione derivanti da una generazione di insegnanti di arti marziali in rapida crescita.
Criteri comuni
Oltre all’unità filosofica e spirituale condivisa dalle arti del
budo, la trasmissione della conoscenza, delle abilità e la valutazione delle relative prestazioni richiede al
budoka lo studio dei princìpi fisici comuni del confronto fisico e delle corrispondenti applicazioni strategiche.
Indipendentemente dalla disciplina del
budo praticata, tutti i
budoka devono studiare la teoria del combattimento ed allenarne le applicazioni pratiche. Per questo motivo, nei veri
dojo, teoria e pratica sono sempre state insegnate di pari passo. Tale allenamento è valido e necessario oggi come lo era per i guerrieri
samurai del Giappone feudale. Questi studi comprendono, per citare i più importanti:
kokyu-ho (metodi di respirazione),
ki (sviluppo e uso corretto dell’energia),
kime (focalizzazione dell’energia),
kiai (energia intensa),
kakegoe (uso del suono della propria voce in combattimento),
hyoshi (cadenza, ritmo),
kamae (posizioni di guardia per il combattimento),
tai/ashi sabaki (movimenti del corpo/dei piedi),
sutemi (sacrificio),
heiko (equilibrio),
chushin (centratura),
ma-ai/ma (distanza spaziale),
igi (intento),
ozuru (risposta),
osae (controllo),
sen (iniziativa),
iru (entrare),
ju (cedevolezza),
wa (armonia),
kan (percezione/intuizione),
ugoki/hanno (azione/reazione),
ukemi (ricezione),
mushin (impegno disinteressato),
fudoshin (attitudine inamovibile),
zanshin (dominio continuo e completa attenzione),
keikaku (pianificazione),
hodokoshi (compassione) e
heiho (princìpi di guerra/pace).
Il vero
budoka - insieme alle fasi fondamentali dell’apprendimento dal principiante all’esperto (
shuhari) bilanciando l’allenamento fisico e non fisico (
bunburyodo), mantenendo l’austerità nel perseguire la virtù delle arti marziali (
butoku) e coltivando la giusta attitudine mentale o giusto spirito (
kokoro) - condivide un legame inseparabile che trascende stile, competizioni, sfruttamento commerciale o politico e si assicura che esista sempre armonia tra coloro che seguono la “Via”. Come per le altre forme del
budo, così anche il
karate-do utilizza strumenti specifici per raggiungere l’obiettivo di perfezionamento finale. In Giappone, in origine fu il
Dai Nippon Butokukai, esattamente come per il
kendo ed il
judo, l’organismo deputato a definire come il
karate-do avrebbe dovuto essere insegnato e valutato attraverso lo studio della sua teoria nei
dojo e l’esecuzione delle sue applicazioni pratiche nelle competizioni.
Le autorità del mondo marziale furono ad un tempo sorprese e compiaciute del fatto che il
karate-do avesse raggiunto una tale enorme popolarità come sport nell’ambito dei
bukatsu (club sportivi) delle scuole e delle università giapponesi. Concentrandosi sull’elemento competitivo il
karate-do venne vigorosamente coltivato e raggiunse l’apice della popolarità come sport, oscurandone la pratica quale arte classica.
I criteri di insegnamento originari comprendevano sei categorie di tecniche basilari e relative applicazioni combattive. Tecniche: 1. metodi per colpire con i pugni; 2. metodi per colpire con i calci e manovre effettuate con le gambe; 3. posture difensive; 4. uso della mano aperta; 5. tecniche di percossa e 6. metodi di ricezione. Applicazioni: 1. torsione delle ossa; 2. separazione dei tendini; 3. blocchi articolari; 4. punti di pressione; 5. atterramenti; 6. proiezioni; 7. contrattacchi; 8. lotta corpo a corpo; 9. lotta a terra; 10. strangolamenti e soffocamenti; 11. impatto percussivo con pugni, percosse, calci, sfregamenti, schiacciamenti e qualsiasi altra forma utile a traumatizzare aree vulnerabili del corpo. Le applicazioni brutali del
karate-do contenute nei kata ortodossi ricadevano in non meno di quattro categorie: 1. tecniche di restrizione/controllo; 2. arresto neurologico; 3. attacchi al sistema respiratorio; 4. controtecniche.
Il problema con applicazioni così brutali è che esse non erano certo adatte alle regole di stile
ippon shobu utilizzate nelle competizioni di
kendo e
judo. Eppure, nello stesso modo in cui
kenjutsu e
jujutsu erano serviti quale nucleo dal quale sviluppare
kendo e
judo, così anche il
Ryukyu Kenpo Toudi-jutsu (
Uchinadi) avrebbe fornito le fondamenta su cui si sarebbe articolato il
karate moderno e le sue pratiche.
Come
kendo e
judo, anche il
karate si dovette limitare a strumenti di base (pugni e calci) per adeguarsi alle competizioni
ippon-shobu. Fu con questi obiettivi competitivi in mente che la pratica e lo scopo dell’allenamento nei
bukatsu prese definitivamente una nuova direzione, ignorando le applicazioni insegnate attraverso i
kata.
Praticamente senza alcun precedente su cui basare la nuova pratica competitiva, gli insegnanti e gli atleti divennero veri e propri pionieri mentre sperimentavano metodi per prepararsi a vincere tornei. Biasimato dagli anziani e acclamato dai giovani, il
karate-do, inteso come nuovo sport, adottò metodi di allenamento più adatti agli obiettivi competitivi.
A seguito della sconfitta da parte del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale le arti marziali persero il supporto governativo e la loro pratica venne bandita dalle forze alleate. Quando il
karate riemerse come forma di ricreazione culturale, negli anni cinquanta, fu propagandato come sport enfatizzandone il valore quale strumento per stringere amicizie tra il Giappone e le culture straniere.
A seguito dell’enorme successo ottenuto dal
judo nei giochi olimpici del 1964 a
Tokyo, le autorità giapponesi credettero che continuando a coltivare la crescente popolarità internazionale del
karate-do, sarebbe stato ragionevole pensare che anche il
karate sarebbe diventato parte della competizione atletica più prestigiosa al mondo. Per questo il
Butokukai venne ancora una volta incaricato di stilare una serie di criteri comuni per unificare il
karate-do sotto gli auspici di un nuovo corpo governativo. Nacque così la
Federation of All Japanese Karate-do Organizations (FAJKO), con il solo scopo di unificare il
karate giapponese in tutto il mondo, usando lo “Statuto dei criteri” stilato in bozza dal
Butokukai come metro per misurare gli standard e valutare le prestazioni.
Tuttavia, dopo il primo campionato mondiale di
karate del 1971 le autorità giapponesi ritennero necessario modificare lo “Statuto dei criteri” definito dal
Butokukai nel 1964 a causa dei modi contrastanti con cui il karate veniva praticato nell’ambito delle culture straniere. Così vennero introdotti requisiti di età e tempi minimi per l’ottenimento dei gradi, in modo che l’avanzamento non avvenisse unicamente in base alla prestanza fisica ma fosse anche accompagnato da un adeguato processo di formazione del carattere.
- FINE SECONDA PARTE -
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