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«Io mi immagino quello che voglio» esclama il personaggio guida di Sergio Ruzzier in Pretesti, citando, come si scopre solo alla fine, una frase delle Storie dell'anno mille di Tonino Guerra e Luigi Malerba: un tuffo libero dal testo all'immagine, abbandonando un'interpretazione letterale dei libri letti nell'infanzia e nell'adolescenza.
Nigel Peake salta nella stessa direzione: una sequenza misteriosa di parole fa da didascalia a quadri astratti con linee, pattern, blocchi geometrici e strappi colorati.
Abbiamo la sensazione di un gioco di composizioni e scomposizioni architettoniche come in tutti i libri dell'autore, dove oggetti, edifici, elementi naturali e paesaggi sono disegnati immaginando i moduli e i segni che tengono insieme le forme.
Arrivati al colophon si legge che le parole sono di Italo Calvino, le ultime di 52 racconti de Le città invisibili.
«Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammeliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti».
"Deserti" diventa così la parola chiave che ispira un reticolato tracciato a matita su fondo nero che si ferma su due linee prima del vuoto.
«La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città continui a esistere».
"Esistere" apre una finestra con davanzale e pioggia a righe che scende.
«Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attivo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa di esistere».
"Esistere" questa volta si trasforma un rettangolo nero verticale con base blu notte e testa a T grigia. Calvino offre su un piatto d'oro parole per la rappresentazione visiva: Le città invisibili diventano una collezione di segnalibri in mostra alla libreria Utrecht di Tokyo nel novembre del 2019.
«La lingua deve avere tutta la mobilità espressiva, e quindi l’ampiezza di registri e fonti, richiesta per accompagnare la percezione, per trovare una equivalenza verbale al fatto visivo» (Alessandra Sarchi, “La felicità delle immagini. Il peso delle parole”, Bompiani 2019).
Ci appropriamo di ciò che ci colpisce per le più svariate ragioni e lo usiamo e trasformiamo a piacere, anche in modo lontanissimo dalle origini. 
E' così che sono nati anche i quadri di Josef Albers: chi si immagina che molte delle sue geometrie astratte siano nate dall'osservazione delle architetture preispaniche? 
Insieme alla moglie Anni visitò il Messico e altri paesi dell'America latina più di una dozzina di volte tra il 1935 e gli anni Sessanta. Durante ogni viaggio Josef scattò centinaia di fotografie in bianco e nero dei monumenti e dei siti archeologici visitati, creando dei fotolibri per tenerne memoria e avere materiale di suggestione visiva per la creazione di dipinti.
Ecco, allora, tutte le volte che diciamo a qualcuno "Ora di alzarsi subito!" o "Muoviti, metti le scarpe!" o "Dai, per favore!" o ancora "Lascia perdere quel libro, è brutto e inutile!" o "Guarda qua, non ti perdere in giro" forse sta solo pensando.
«Stavo pensando … stavo pensando sul lavare bene … stavo pensando all’acqua, a secchiate, a ruscellate, a vasche piene e a cose fredde come pietre lisce e a tutte le conchiglie e le campane e fontane … Stavo pensando a lune e palloni. A palloni e poi a ruote. A palloni e poi a foche …».
Pensando che si può andare oltre le parole, che c'è uno spazio personalissimo e intimo dove andare e quel perdersi ritornerà nel tempo in modi imprevisti, pensando semplicemente che ti vuole un trilione di bene anche se non lo comunica proprio neell'istante in cui scatta un imperativo.
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