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Una passeggiata in via Sarpi

Una comunità che vuole tornare alla normalità


Stanca, provata, ma non rassegnata. È questo lo stato d’animo della comunità cinese di Milano, dopo dieci giorni in cui il nuovo coronavirus è sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Camminando per via Sarpi, cuore della Chinatown meneghina, e fermandosi a fare qualche domanda a ristoratori e negozianti, è il fastidio per essere sotto i riflettori una delle prime cose che emerge. Ieri mattina in via Sarpi c’erano più giornalisti e fotografi che persone con la mascherina, in una strada certo non piena, ma nemmeno vuota, con persone che facevano colazione, altre a passeggio e molte con le buste della spesa in mano. I dehor completamente vuoti sono però tanti, e la situazione è peggiore la sera, quando via Sarpi (ancora addobbata per il Capodanno cinese) è avvolta da un irrituale silenzio.
Via Paolo Sarpi sabato mattina
A ricordare che la situazione non è però normale ci pensa un piccolo mercatino improvvisato all’angolo tra via Sarpi e via Niccolini (che sarà attivo anche oggi fino alle 18) in cui si vendono abiti e accessori cinesi per raccogliere fondi destinati all’acquisto di materiale sanitario da inviare in Cina. Due passi più avanti, ai civici 25 e 27, si trovano i due punti vendita sulla strada di “Ravioleria Sarpi”, solitamente presi d’assalto da milanesi e turisti. In questi giorni di coda non ce n’è mai, e si può mettere le mani su ravioli, Baozi e involtini in pochissimo tempo. Ai ristoranti più classici non va meglio. Alla Trattoria Long Chang ci dicono che sabato alle 13 hanno sempre il locale pieno, mentre oggi solo 5-6 tavoli sono occupati da coppie, per lo più milanesi. Una di loro, alla cassa, si dice dispiaciuta della situazione, “speriamo torni presto tutto alla normalità” dicono ad un proprietario che cerca di restare ottimista, mentre uno dei camerieri, probabilmente di origine bengalesi, si lamenta del fatto che i suoi colleghi cinesi debbano essere osservati come se fossero tutti ammalati.
Ravioleria Sarpi senza alcuna fila
L'altra sede di Ravioleria Sarpi, anche questa senza fila
I ristoranti sono le attività che più hanno accusato il colpo in via Sarpi, e questo tipo di business costituisce anche circa un quarto di tutte le imprese guidate da cinesi in città. Francesco Wu, consigliere di Confcommercio e referente per l’imprenditoria straniera, ha detto a Repubblica che le prime stime sono di “una perdita giornaliera di 4 milioni nella provincia di Milano tra le 8mila imprese gestite da imprenditori cinesi.” Le istituzioni stanno cercando di dare il buon esempio nel contrastare le, spesso infondate, paure della popolazione. Venerdì l’assessore alle attività produttive del Comune di Milano Cristina Tajani ha organizzato un pranzo contro “fake news e pregiudizi” in un ristorante della zona, mentre Giuseppe Sala ha già annunciato che la prossima “Colazione con sindaco” (periodici incontri mattutini con i cittadini) si terrà in via Sarpi sabato prossimo per dare un “segno di tranquillità.” Molti credono che a diffondere il panico abbiano contribuito anche i media, spesso con toni e titoli piuttosto allarmistici. Soltanto ieri il Mattino titolava “Il coronavirus come il colera”, il Corriere della Sera “Virus, è stato di emergenza” (con le prime 11 pagine del quotidiano dedicate al coronavirus) e La7 mandava in onda in prima serata il film “Virus letale”.
Alcuni giornalisti al punto di raccolta fondi per spedire materiale sanitario in Cina
Tutti i lavoratori di Chinatown sperano di tornare alla normalità e scansano le domande dei giornalisti, spesso rifugiandosi dietro una scarsa conoscenza dell’italiano. La psicosi da coronavirus sta anche portando alla luce diversi episodi di discriminazione in tutta la penisola. “In un certo senso è una reazione naturale stare a distanza da una potenziale causa di malattia, ancor di più se è sconosciuta – ci dice Mei, nata a Milano da genitori cinesi e oggi studentessa alla Statale – ma le persone non capiscono che tanti dei cinesi che guardano male sono magari nati in Italia o sono stati per l’ultima volta in Cina anni fa.” Di certo Mei si è accorta di essere guardata in modo diverso negli ultimi giorni: “Anche se non porto la mascherina, ogni volta che salgo in metro le persone si voltano a guardarmi.”
Il deserto dehor della Trattoria Long Chang
Questo articolo è lungo meno di “2000 parole” perché a un certo punto ci siamo accorti che anche il nostro girare per il quartiere, scattare foto e porre domande, stava in qualche modo trasformandosi in un’invasione della tranquillità di questa comunità. Perché in fondo Chinatown non è più pericoloso di qualsiasi altro quartiere della città. E così abbiamo preferito fare quello che, per fortuna, tante persone che vanno oltre i pregiudizi stanno facendo in questi giorni: entrare in un ristorante cinese e ordinare spaghetti di riso e ravioli al vapore, o qualsiasi altra specialità cinese di cui si è ghiotti.
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