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Ritorno al paese delle tovagliette a quadri

Intervista a Tommaso Melilli


“Nella storia recente dell’alta cucina degli ultimi vent’anni c’è stata Parigi, che ha inventato un nuovo modo frugale ed elegante di mangiare bene; c’è stata Copenaghen, che ha insegnato a tutti i cuochi del mondo che intorno a te c’è sempre qualcosa di buono da raccogliere; e poi c’è Milano, che si è ingozzata di sushi per vent’anni. Non si sa bene perché, «il miglior ristorante indiano di tutta Milano» era sempre sotto casa dell’amico che mi ospitava, anche se gli amici che mi ospitavano erano tanti e abitavano in tanti quartieri diversi. E l’indiano sotto casa loro faceva schifo. Continuavo a vedere decine e decine di trattorie toscane gestite da famiglie palesemente bergamasche o calabresi; e io mi annoiavo moltissimo.” Poi però Tommaso Melilli, che a Parigi era diventato uno chef e in pochi anni aveva aperto il suo ristorante, si è accorto che qualcosa stava cambiando. La Francia stava diventando più noiosa, mentre in Italia c’erano alcuni ristoranti che stavano cambiando la cucina italiana. Tommaso ha così lasciato il suo ristorante per iniziare un viaggio sentimentale in alcune trattorie italiane (tra cui la milanese Trippa), dove spendeva qualche giorno in cucina come l’ultimo degli stagisti, osservava e parlava con chi quei luoghi li animava. Il risultato è “I conti con l’oste”, non un libro di cucina, ma un viaggio nel “paese delle tovaglie a quadretti” che fa sorgere domande sul modo in cui mangiamo e ci fa scoprire che matrice, diaframma e cervello di vacca possono diventare dei piatti pazzeschi. Tommaso, il cui modo di raccontare il suo mondo ricorda molto Kitchen Confidential di Anthony Bourdain, oggi vive a Milano e, una volta che tutto questo sarà passato, spera di aprire il suo ristorante. E siccome Milano, più che da bere, è diventata da mangiare, gli abbiamo fatto qualche domanda sul libro e sul cibo.
Tommaso Melilli
Come è nato questo libro?
L’idea mi è venuta un paio di anni fa, in un periodo in cui avevo il mio ristorante, facevo i miei menù, ma comunque mi informavo, leggevo e vedevo le foto dei piatti su Instagram. E mi sono accorto che c’erano dei ristoranti in Italia che mi interessavano molto di più di quello che si faceva a Parigi, che invece mi sembrava un po’ in fase calante per l’originalità del movimento. Pur essendo tuttora una situazione nemmeno lontanamente comparabile con Milano, perché di locali di dining informale di un certo tipo, che sono semplici, facili da frequentare e che non costino più di 50 euro a Parigi ce ne sono 300 e a Milano 40, 5 anni fa erano solo 10. Però qua ora ci sono anche persone che fanno cose diverse, più vive, che colgono aspetti inespressi ma fondanti della cultura alimentare circostante.

Perché un libro?
Mi sono detto: voglio andare per partecipare a questa cosa, ma anche per raccontarla, per dargli una forma. Nel libro accenno all’ultima grande età dell’oro gastronomica parigina, quella della bistronomie, l’alta gastronomia dei bistrot. Se però cerchi un libro che la racconti, non c’è, a parte gli articoli di Adam Gopnik sul New Yorker. Questo tipo di cose mancano nel mondo della cucina contemporanea: c’è cronaca ma non c’è storia.

È normale per uno chef fare questa specie di Grand Tour nelle cucine di altri chef?
Nella maggior parte dei casi queste situazioni sono inquadrate dalle scuole; poi mandi i cv, e puoi fare uno stage. In quasi tutti i posti in cui sono stato quest’anno c’era sempre un altro stagista non pagato o pagato dalla scuola. È abbastanza normale, si fa per sei mesi, e quando sei più utile di quanto sei tra i piedi trovi un posto vero. Tutti i ristoranti hanno grande richiesta, e poi comunque uno stagista dà fastidio, perché devi insegnargli delle cose.

Nei primi capitoli, c’è un passaggio in cui dici “Per la prima volta dopo tanti anni lavoro con delle colleghe e dei colleghi che amano il loro mestiere e non odiano me, ho un datore di lavoro non affetto da manie di persecuzione, tendenze criminali o dipendenza da droghe pesanti, e soprattutto posso cucinare quello che voglio”. I luoghi comuni che associamo a chef e cucine sono quindi veri?
Sono degli stereotipi, ma sono anche la realtà. Nella maggior parte dei casi sono cose che sopravvivono da un mondo più antico, che però sta migliorando: le droghe, l’alcool, il fumo, il mobbing, i maltrattamenti, lo stress. Le dipendenze comunque sono cose con cui, secondo me, bisognerebbe avere un po’ più di tenerezza, perché la dipendenza è una patologia, una debolezza. Molto più gravi e imperdonabili sono le dinamiche di sfruttamento da parte dei datori di lavoro, soprattutto quando sono investitori e non persone che nei ristoranti ci lavorano. Difficile che ci siano dinamiche di sfruttamento così drastiche quando il padrone è accanto a te, il problema vero è quando ci sono investitori oscuri o anche semplicemente alla ricerca di un soldo facile. In Italia, e soprattutto a Milano, vedo moltissimo esempi di questo genere, dei locali che sono aperti prima dall’agenzia comunicazione e dall’ufficio stampa che dalle persone che ci lavorano.
Il libro è uscito a fine febbraio per Einaudi
Tu dici anche che uno dei problemi della ristorazione italiana è che, ad un certo punto, tutti hanno smesso di fare cucina del territorio, cioè quella tutti inconsapevolmente facevano, e iniziato a fare altro. Cos’è questo “altro”?
È più che altro una versione semplificata della cucina francese classica. Gli ingredienti sono le bistecche, la tagliata, il branzino, il salmone. Una volta c’erano tanti pesci, e ora gli unici pesci che si possono fare sembrano branzino, orata e salmone. Le capesante in Italia fino 25 anni non le avevamo mai viste nessuno, non c’è il clima giusto. Anche le patatine fritte, volendo. La tagliata di manzo è però il caso più emblematico. Nei canoni regionali italiani, tolta la Toscana, non esistono cotture di carne al sangue, perché siamo un paese caldo e la carne al sangue si deteriora troppo velocemente. In Francia e nel centro-nord Europa c’è questa tradizione, da noi no. Ora invece quando vai al ristorante sembra che la tagliata sia un piatto che semplicemente non può non esserci, perché c’è una fascia dalla clientela che va al ristorante e prende sempre e solo questo. Questa è una corruzione industriale del nostro immaginario: noi non sappiamo più ordinare da mangiare e mangiamo sempre quella cosa lì, e quindi tu chef non puoi non metterla perché se no la gente si arrabbia. Questo succede anche nella maggior parte dei ristoranti di successo e più innovativi. Anche Trippa ha una tagliata, che però è di diaframma di manzo, quindi un pezzo diverso, ma è comunque una tagliata al sangue col contorno.

E come si esce da questo circolo vizioso?
Si può girarci intorno, dare una forma diversa alla cose. Oggi la tagliata è, nella quasi totalità dei casi, un pezzo del posteriore del manzo o del carré, che sono le parti più tenere, più costose e consumate. Gli anteriori e il quinto quarto di solito non li prende nessuno. Allora tu puoi farti scaltro, fare il diaframma, il lombatello, il cappello del prete (che di solito è fatto bollito ma se tu togli il nervo con un’operazione un po’ complessa diventa tenero quasi come un filetto). Puoi comunque proporre la stessa cosa, ma creando cultura, utilizzando meglio l’animale e raccontando una storia, e alla fine dei conti esaudisci il desiderio del cliente. Perché comunque noi siamo lì per dare un servizio e quindi è sbagliato dire “io questo non lo metto in menù”, però possiamo creare i loro desideri, che è complicato, perché ci vuole cultura, immaginazione, attenzione e ascolto.
Tommaso Melilli ha una rubrica di cucina su Slate.fr
Nei posti in cui sei andato e di cui scrivi nel libro, gli chef amano sperimentare e cambiare. Ci sono però trattorie, che per quanto rispettino molte delle caratteristiche di cui parli, fanno più o meno sempre gli stessi piatti. Come stanno insieme queste cose?
Le cose stanno assolutamente tutte assieme, ma comunque ogni tanto bisogna cambiare. L’anno non è tutto uguale e non si possono cucinare sempre le stesse cose, perché se fai sempre e in ogni caso le stesse cose, anche quella è corruzione industriale. Se i contorni sono sempre la zucca, gli spinaci bolliti e le patate, mi dispiace ma no, la natura lavora diversamente. Noi siamo conviti che questo sia vecchio, ma in realtà è degli anni ’90, da quando sono arrivate le verdure surgelate ad uso professionale. D’altro canto l’originalità e la ricerca quotidiana non è certo obbligatoria, ci si può concentrare a fare poche cose e fatte bene, e se si ha voglia di cambiare si cambia e si si ha voglia di rimanere in una zona di conforto va benissimo così. Io avevo bisogno e voglia di raccontare un mondo che solo in minima parte è un mondo antico, che sopravvive, volevo raccontare un mondo che guarda all’antico ma che sceglie di esistere adesso. Quindi gli chef di cui parlo nel libro sono necessariamente in una fase di ricerca.

Uno di questi è Diego Rossi di Trippa, qui a Milano. Ma per il resto non hai parole troppo gentili per i ristoranti milanesi. Come è vista la scena milanese dall’estero?
Fino a 5 anni fa Milano era assolutamente non pervenuta nel panorama generale, spiace dirlo ma è così. Anche le stesse grandi star locali non erano considerati quelli che facevano scuola. I grandi ristoranti non possono funzionare senza una borghesia intellettuale, lavoratrice, che ne discute, che prenota, che rende pieno un posto e ne giustifica il successo. Questa cosa è successa negli ultimi anni, con il sopravvento di una borghesia più giovane, quella dei nuovi tipi di lavoro e della sharing economy. Questa borghesia è molto più attenta, è generazione Erasmus, ha girato il mondo, ha visto, ha assaggiato. Mancano comunque in Italia dei veri media gastronomici come Eater o delle vere guide di lifestyle. Da noi la maggior parte dei critici gastronomici vogliono essere amici dei cuochi, negli altri Paesi i cuochi hanno paura dei giornalisti gastronomici. E fino a pochi anni fa Milano era uno spazio più provinciale, non tanto diverso da una Parma. Chi ha i soldi a Parma va negli stessi ristoranti senza farsi tante domande, va in quelli e basta. Milano era un po’ così prima, si andava nei posti dove si doveva andare. Oggi c’è una vera scena, ci sono tanti aperture, ora purtroppo verranno rimandate, però la scena è fervida e viva.

Quali sono i tuoi posti preferiti dove mangiare a Milano?
Mi metti in difficoltà [ride, ndr]. Intanto devo dire che sono un convivale molto frugale, molto irrequieto e mi piacciono i luoghi confusi. Oltre a Trippa, sono stato varie volte e molto bene a Rost, il cui oste è un mio vecchio amico di Parigi; mi piace molto il tipo di proposta, che è in evoluzione, dell’Enoteca Naturale, che è un luogo aperto, libero, vivo; e mi è piaciuto Sottobosco, che ha aperto a fine gennaio.
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