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Fumo di Londra, 24 gennaio 2019
«Cento settimane per dirsi addio». Episodio #92

Ecco la Brexit che piace ai Paesi Bassi
Dopo Panasonic, Sony lascia il Regno Unito e attraversa la Manica. L’Aia avverte Londra: «Altre 250 aziende pensano di trasferirsi qui»

Nella settimana in cui il premier britannico Theresa May è tornata alla Camera dei Comuni per presentare il suo piano B per la Brexit (che altro non è che un piano A con qualche rassicurazione e apertura al dialogo), un’altra grande impresa ha annunciato l’addio al Regno Unito a causa dell’uscita di quest’ultimo dall’Unione europea. Si tratta di Sony Europe. Il colosso elettronico seguirà nei Paesi Bassi Panasonic, che già a settembre aveva trasferito la sua sede europea ad Amsterdam per evitare problemi amministrativi e fiscali causati dalla Brexit. 

Con loro diranno addio a Londra anche il produttore di elettrodomestici Dyson, il cui amministratore delegato James Dyson fu tra i più convinti sostenitori del Leave, diretta a Singapore, P&O Ferries (società britannica che da quasi due secoli gestisce i traghetti che attraversano la Manica) che si trasferirà a Cipro, e la farmaceutica Steris che andrà in Irlanda. Qui le farmaceutiche Wasdel e Central Pharma hanno già predisposto ingenti investimenti. Sempre nel settore medico, AstraZeneca ha sospeso ogni decisione sugli investimenti nel Regno Unito fino alla data di Brexit, mentre GlaxoSmithKline ha avvertito che «no deal sarebbe un esito davvero negativo». Nel mondo automobilistico, invece, Toyota, Honda e Bmw hanno già deciso di sospendere la produzione in aprile per ripensare la loro strategia. Il numero uno di Bentley, Adrian Hallmark, ha definito la Brexit un «killer» che mettere a rischio la sopravvivenza del gruppo.

Il timore di questi giganti ha un nome: «no deal». A due mesi dalla data della Brexit, il 29 marzo, lo scenario dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea senza accordo è ancora un’opzione, visto che il premier May non ha voluto escludere la possibilità forse anche in chiave negoziale, in vista sia del nuovo voto alla Camera dei Comuni sia dell’eventuale riapertura dei negoziati con l’Unione europea. 

CORRERE AI RIPARI
Ma il conto alla rovescia è iniziato e il mondo del business sta correndo ai ripari. Mentre Airbus ha annunciato che potrebbe spostare le sue fabbriche e i suoi investimenti in altri Paesi in caso di «no deal», Sony ha già deciso che trasferirà il quartier generale da Londra ai Paesi Bassi collegando la decisione ai rischi della Brexit: «Abbiamo dovuto agire per garantire la continuità delle nostre operazioni» dopo il 29 marzo, ha detto un portavoce del gruppo. Il colosso giapponese non licenzierà i 900 dipendenti e continuerà a essere presente nel Regno Unito. Tuttavia, ha scelto i Paesi Bassi per rimanere legalmente nel mercato unico.

Era stato il governo giapponese a lanciare un avvertimento a Londra sui rischi della Brexit «disordinata» (oggi un portavoce di Downing Street ha commentato la notizia di Airbus spiegando che il premier Theresa May sta lavorando per assicurare un accordo per un’«uscita morbida» dall’Unione europea). Il premier giapponese Shinzo Abe, in visita ufficiale due settimane fa a Londra, aveva sottolineato i pericoli di un’uscita dall’Unione europea senza accordo per le imprese giapponesi, che danno lavoro a 150.000 persone nel Regno Unito.

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In tutto questo c’è chi festeggia. È il governo olandese, nonostante il premier Mark Rutte abbia più volte dichiarato che di «non vedere la Brexit come un’opportunità di fare affari». L’Aja, che sta cercando di battere la concorrenza di Parigi (lunedì il presidente francese Macron ha incontrato a Versailles oltre 140 imprenditori, compresi i manager di Goldman Sachs, Google e Siemens, durante un evento dal nome «Scegliere la Francia»), ha annunciato tramite l’Agenzia per gli investimenti esteri (emanazione del ministero dell’Economia) di essere in contatto con oltre 250 imprese che potrebbero trasferirsi nei Paesi Bassi dopo la Brexit. L’Aia annuncerà un numero finale a febbraio, ma «ogni nuovo arrivo di un'impresa, grande o piccola, è un successo», ha detto Michiel Bakhuizen, portavoce dell’Agenzia olandese per gli investimenti esteri: «Il numero di aziende che potrebbero traslocare sta crescendo. All’inizio del 2017 erano 80, all’inizio del 2018 150 e ora sono più di 250», ha aggiunto Bakhuizen. Segnale che il pericolo del «no deal» è reale.

Così, i Paesi Bassi, la cui capitale L’Aia dista 150 miglia di mare dalle coste del Sud-Est britannico, sta cercando di riscattarsi dagli effetti della Brexit, essendo tra i Paesi che rischiano di pagare di più il divorzio del Regno Unito. Secondo una ricerca del Comitato delle regioni (l’assemblea comunitaria di 350 rappresentanti degli enti locali e regionali dell’Ue) i cui risultati sono stati pubblicati da Politico, i campi che più preoccupano sono il commercio, il turismo, l'agricoltura e la pesca. Seguono le politiche comunitarie di coesione, gli investimenti immobiliari e le questioni di cittadinanza. Solo per fare un esempio, alcune province olandesi, quelle di Flevoland e di Overijssel, potrebbero subire un calo dell’attività di pesca del 60%.

Di questo avevamo già parlato un annetto fa qui su Fumo di Londra, vito che nei Paesi Bassi, terzo partner commerciale del Regno Unito ma probabilmente il primo per affidabilità politica, la paura della Brexit sembra già allora essere tanta, visti i preparativi messi in piedi allora dal ministero delle Finanze: un piano di assunzioni per il personale delle frontiere con 750 nuovi agenti nel caso in cui il rapporto tra Regno Unito e Ue fosse ispirato al modello canadese, 930 nell’eventualità di «no deal» tra le due sponde della Manica.

GLI SCAMBI TRA PAESI BASSI E REGNO UNITO
Diamo un’occhiata ai numeri. Un rapporto di KPMG commissionato dal governo dell’Aja rivela l’impatto dell’uscita del Regno Unito dall’unione doganale su sei grandi settori economici. Le dichiarazioni di esportazioni dai Paesi Bassi aumenteranno di 4,2 milioni, quelle di importazioni di 752.000. I costi aggiuntivi per amministrare queste nuove «formalità doganali» potrebbero pesare per 628 milioni di euro l’anno agli olandesi.

Come illustrava un report di Rabobank, l’8% delle esportazioni olandesi è diretto al Regno Unito. Vale il 2,3% del Pil. Invece, le importazioni da Oltremanica rappresentano l’11% dell’import totale dei Paesi Bassi. I settori che più dipendono dalle esportazioni verso il Regno Unito sono l’estrazione mineraria, la manifattura (pelletteria, tessile, calzature ma anche apparecchiature elettriche e ottiche) e l’agricoltura. I legami sono stretti, e lo sono anche in un altro settore: quello alimentare. Il Regno Unito, infatti, è autosufficiente soltanto per il 60% in termini di cibo ed è quindi un grande importatore. Dai Paesi Bassi partono soprattutto frutta, vegetali e fiori (1,85 miliardi di sterline), cibo di consumo (1,17 miliardi), pollame e uova (643 milioni), bevande (575 milioni) e prodotti come caffè, tè e cioccolato (368 milioni). 

Indipendentemente dal tipo di accordo tra Londra e Bruxelles, è certo che il costo delle esportazioni aumenterà. Le sole verifiche amministrative al confine potrebbero far lievitare i prezzi fino all’8%: a essere più colpiti saranno proprio i prodotti alimentari, soggetti a controlli veterinari e fitosanitari. Senza dimenticare la possibile crescente concorrenza da parte di Paesi terzi: questo scenario impatterebbe negativativamente su settori centrali come carne, latticini e zucchero, spiegava Rabobank.

Ma il documento di Rabobank evidenziava anche dei vantaggi per i Paesi Bassi dalla Brexit: i concorrenti britannici diventeranno meno competitivi per via delle barriere commerciali; l’expertise olandese potrà aiutare gli altri a fronteggiare la Brexit; i Paesi Bassi si potranno affermare come accesso privilegiato per il Regno Unito verso l’Ue. 

LE AFFINITÀ TRA LONDRA E AMSTERDAM
C’è poi un fattore che il report della banca non prende in considerazione: la distanza tra Amsterdam e Londra. Poco più di un’ora di volo separa le due città. Senza dimenticare le vicinanze culturali: gli olandesi parlano quasi tutti anche l’inglese, il Paese offre - proprio come il Regno Unito - ottime scuole internazionali e alti standard nel digitale, nell’innovazione e nella finanza. Se dopo Brexit si cercherà una nuova Londra la favorita, secondo il New York Times, è proprio Amsterdam. È la capitale finanziaria e politica del Paese, è il cuore del commercio internazionale, ha uno degli principali aeroporti d’Europa oltre a treni che portano in due ore a Bruxelles.

Così, dopo che Amsterdam è riuscita strappare a Milano l’Agenzia europea del farmaco, L’Aja punta a bruciare la concorrenza di Parigi nella corsa alle aziende in fuga dal Regno Unito della Brexit.

Ciao, ci sentiamo giovedì prossimo.
Come sempre, vi lascio qualche consiglio di lettura.
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