Copy
Fumo di Londra, 31 gennaio 2019
«Cento settimane per dirsi addio». Episodio #93

La Brexit vista da Israele
Londra è il secondo partner commerciale dello Stato ebraico, che è tra i Paesi già pronti a un accordo di libero scambio post Brexit

Tel Aviv. La Brexit ha un duplice effetto sugli accordi di libero scambio. Infatti, uscendo dall’Unione europea, il Regno Unito rinuncia in primo luogo al mercato unico e all’unione doganale con gli altri 27 Stati membri. E in secondo luogo anche ai patti commerciali stretti da Bruxelles con altri Paesi e organizzazioni di Paesi nel mondo. I fautori della Brexit sostengono trumpianamente che l’era degli organismi internazionali è al tramonto, che è giunto il tempo degli accordi bilaterali e che l’uscita dall’Unione europea rappresenterà per il Regno Unito l’occasione di stringere patti più convenienti e in tempi assai più ristretti rispetto alle lungaggini dei concerti europei. Dall’altro fronte avvertono: la Brexit comporta una rivoluzione per il commercio britannico che ben anche offrisse condizioni più favorevoli, le offrirebbe in un futuro troppo lontano, per giunta a un costo altissimo come la rinuncia al libero scambio con gli altri 27 Paesi dell’Unione europea e agli accordi stretti in questi anni, spesso con enorme fatica, dal club di Bruxelles con il resto del mondo. 

Da membro dell’Unione europea, infatti, il Regno Unito è parte di una quarantina di trattati commerciali con oltre 70 Paesi nel mondo. Ma nel caso di mancata intesa per l’uscita, cioè il temuto scenario «no deal», Londra sarebbe costretta a utilizzare per i suoi scambi le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, avendo perso tutti gli accordi. Infatti, finché rimane nell’Unione europea, cioè fino alla data della Brexit, il Regno Unito non può stringere intese con altri Stati o organizzazioni internazionali. Il dipartimento del Commercio internazionale, guidato dal segretario di Stato Liam Fox, ha rivelato a dicembre che un accordo commerciale con la Svizzera, che copra i risparmi e l’agricoltura, è pronto anche se non ancora firmato per le ragioni sopracitate. Vicine a chiudere un’intesa sembrano anche Sud Africa, Australia e Nuova Zelanda, Paesi da sempre legati al Regno Unito. Fox, inoltre, ha contatti avviati con Arabia Saudita, Bahrein, Filippine, Turchia, Brasile e sopratutto Stati Uniti per trattati di libero scambio dopo la Brexit.

TIMING PERFETTO
Il 29 marzo 2017 il primo ministro britannico Theresa May annunciava l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona dando inizio al conto alla rovescia di due anni che scadrà - a meno di rinvii - il prossimo 29 marzo con l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Lo stesso giorno alcuni ministri del suo gabinetto guidavano la prima riunione del gruppo di lavoro sul commercio israelo-britannico, creato un mese prima in seguito alla visita a Londra del premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Il Regno Unito è il secondo partner commerciale di Israele dopo gli Stati Uniti. Ed è anche per questo che le due parti, in vista della Brexit e dell’uscita del Regno Unito dall’accordo di libero scambio tra Unione europea e Israele, stanno cercando un’intesa. Infatti, la scorsa settimana, al World economic forum di Davos, il segretario di Stato Fox ha annunciato con il ministro dell’Economia israeliano Eli Cohen che un’intesa di base tra Regno Unito e Israele è stata raggiunta, senza specificarne la natura. Il ministro Cohen ha parlato di un accordo importante visto che, secondo le stime, nel 2018 l’interscambio tra i due Paesi ha superato la soglia dei 10 miliardi di sterline. L’export britannico in Israele (escluso il mercato dei diamanti) ha toccato i 3,45 miliardi di sterline nella prima metà del 2018, facendo registrare un +75% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando il flusso si fermò a 1,97 miliardi. Si tratta di un export composto prevalentemente da minerali, macchinari, strumenti e prodotti per l’industria chimica.

Se vuoi sostenere il mio lavoro per «Fumo di Londra» puoi fare una donazione in tutta sicurezza su PayPal. Clicca qui. Grazie e buona lettura!

Mancano meno di due mesi alla Brexit e così, trovandomi a Tel Aviv per seguire la Cybertech Conference, ho provato a parlare informalmente con un po’ di esponenti della vita politica ed economica in Israele. Diversi imprenditori israeliani e un membro dell’ufficio del premier Netanyahu mi hanno sottolineato l’importanza della visita del segretario Fox a novembre (giunta poche settimane dopo un appello del premier May durante una cena della United Jewish Israel Appeal affinché la Brexit diventi occasione di relazioni più strette tra i due Paesi) per parlare delle opportunità post Brexit: aveva incontrato non soltanto il premier Netanyahu, ma anche investitori e compagnie del settore di punta dello Stato ebraico, l’hi-tech.

Tutti, imprenditori e politici israeliani, mi hanno invitato ad approfondire l’operato dell’UK Israel Tech Hub, sostenendo che è grazie a questa iniziativa lanciata nell’ottobre 2011 dall’allora ambasciatore britannico in Israele Matthew Gould che è cresciuto lo scambio tra i due Paesi. Si tratta di un progetto nato da un accordo sottoscritto dai due premier, David Cameron e Benjamin Netanyahu, per promuovere partnership commerciali tra Regno Unito e Israele nei campi della tecnologia e dell’innovazione.

UN MODELLO DA REPLICARE
Si stima che dal 2011 il Tech Hub, primo progetto al mondo di questo tipo che, raccontano fonti della Farnesina, l’Italia vorrebbe in qualche modo replicare, abbia alimentato un giro d’affari da 800 milioni di sterline. Ha allo stesso tempo permesso alle aziende britanniche di accedere alle innovazioni israeliane e aiutato le aziende israeliane a diventare globali collaborando con quelle britanniche. A oggi ha contribuito a sottoscrivere 175 accordi per 85 milioni di sterline. Il boom è stato registrato nel 2017, quando molti gruppi britannici hanno iniziato ad adottare tecnologie israeliane all’avanguardia in aree come intelligenza artificiale, chatbot, blockchain e Internet of Things ma anche in progetti di smart city e smart industrya. Come ha spiegato l’attuale ambasciatore britannico in Israele David Quarrey, «con queste nuove partnership il Regno Unito è ora una delle principali destinazioni per l’innovazione israeliana e l’innovazione israeliana è ora parte di molti settori della vita britannica».

Permangono nel mondo politico ed economico israeliano i timori di un’ascesa al potere nel Regno Unito di Jeremy Corbyn, il leader del Partito laburista con un passato neanche troppo lontano certamente antisionista, probabilmente antisemita. Ed è forse anche per questo, per il recente passato di grande cooperazione e per il tentativo di Netanyahu di allargare il più possibile, perfino a quelli che una volta erano i Paesi nemici del Golfo, le relazioni del suo Paese con il resto del mondo, che Israele dà segnali di disponibilità a un accordo di libero scambio post Brexit immediato.

Ciao, ci sentiamo giovedì prossimo.
Come sempre, vi lascio qualche consiglio di lettura.
Segnala «Fumo di Londra» ai tuoi amici inoltrando questa mail
Seguimi su Twitter
Copyright © 2019 Gabriele Carrer, All rights reserved.
newsletter@fumodilondra.com
www.fumodilondra.com

Modifica le tue preferenze oppure cancella la tua iscrizione (ma non è il caso).

Email Marketing Powered by Mailchimp