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Federazione Assemblee
Rastafari in Italia

marzo 2019

Sommario


 
LA BATTAGLIA DI ADWA

 

Alla commissione americana riguardante l'Africa

... La corrente che si sta diffondendo in Africa oggi non può essere fermata. Nessun potere sulla terra è abbastanza grande da fermare o invertire la tendenza. La sua marcia è implacabile e inesorabile come il passare del tempo. ...


Oggi, gli Africani e gli amici dell'Africa stanno celebrando ovunque l'Africa Freedom Day. L'osservanza di questo Giorno testimonia ciò che è senza dubbio uno dei fenomeni più significativi di questo mondo del dopoguerra: la liberazione dai legami che da tempo incatenano milioni di Africani per i quali, solo poco tempo fa, la libertà e l'indipendenza erano solo sogni lontani. Nel dopoguerra, il numero di nazioni Africane indipendenti è più che raddoppiato; il prossimo anno, ulteriori stati raggiungeranno la loro indipendenza; e ogni anno che segue vedrà un numero sempre crescente di Africani che si godono i doni più preziosi dell'Onnipotente Dio.
               
La corrente che si sta diffondendo  l'Africa oggi non può essere fermata. Nessun potere sulla terra è abbastanza grande da fermare o invertire la tendenza. La sua marcia è implacabile e inesorabile come il passare del tempo. Da tempo è atteso il giorno in cui un cambio di atteggiamento da parte di quelle nazioni, che finora hanno cercato di ostacolare o impedire questo movimento o che si sono accontentate nel passato di rimanere passive di fronte alle appassionate grida di libertà e di giustizia, per il diritto di stare con i loro simili da pari a pari, che si sono alzate da questo Continente. E' tempo per loro di unire le opere di solidarietà a favore della lotta dei popoli Africani per ottenere il proprio posto nel mondo che è loro diritto di nascita donato da Dio. Coloro che contestano o rifiutano di farlo, coloro che non hanno la visione e la lungimiranza di rendersi conto che l'Africa sta emergendo in una nuova era, che agli Africani non saranno più negati i diritti che sono inalienabilmente loro, non altereranno o invertiranno il corso della storia , ma subiranno solo le inevitabili conseguenze del loro rifiuto di accettare la realtà.
               
Cosa c'è da imparare dagli eventi che stanno accadendo nel Continente Africano? Deve anche essere riconosciuto che l'Africa, la sua gente, il suo presente e il suo futuro sono di vitale importanza per tutti, indipendentemente da quanto siano geograficamente lontani. In passato, l'America si è troppo spesso accontentata di rimanere relativamente indifferente agli eventi in Africa, anch'essa disposta a stare ai margini della storia Africana come osservatrice disinteressata. Questa politica non servirà oggi e l'atteggiamento che il popolo e il Governo Americani hanno ora adottato nei confronti dell'Africa indica che anche loro si rendono conto che una nuova Africa sta emergendo sulla scena mondiale. Di conseguenza, tuttavia, gli Americani sono stati in gran parte disinformati riguardo a noi, i nostri popoli, i nostri problemi. Tra gli altri popoli, si sta gradualmente affermando sempre più, ma principalmente, Noi azzarderemmo, perché i popoli dell'Africa hanno costretto il resto del mondo a prestare attenzione a loro e ad ascoltare le vibrazioni e gli eco che si sono propagate da questo Continente nell'ultimo decennio.

 

Africa e Stati Uniti d'America
           

Il popolo Americano può dare un contributo significativo garantendo che esista un'amicizia profonda e duratura tra l'Africa e gli Stati Uniti d'America. Scoprite di più su di noi; capite le nostre origini, la nostra cultura e tradizioni, i nostri punti di forza e di debolezza. Imparate ad apprezzare i nostri desideri e le nostre speranze, i nostri problemi, le nostre paure. Se ci conosciamo veramente, esisterà una base solida per il mantenimento delle relazioni amichevoli tra i popoli Africano e Americano, che - Noi siamo convinti – entrambi desideriamo tanto ardentemente. Potreste star certi che non ci sarà mancanza alcuna nella calda e fraterna risposta da parte nostra.
               
Nel bel mezzo della lotta e del tumulto che oggi segna l'Africa, i popoli Africani tendono ancora la mano dell'amicizia. Ma è tesa verso coloro che desiderano il progresso e la libertà politica ed economica del popolo Africano, che sono disposti generosamente e senza pensare al proprio guadagno di aiutarci ad alzarci in piedi e stare al loro finco come fratelli. Siamo convinti che ci siano innumerevoli milioni di tali in tutto il mondo. Sappiamo che quelli a cui inviamo questo messaggio, che oggi sono riuniti a New York per partecipare alla celebrazione dell'Africa Freedom Day, sono annoverati tra questi. A loro, inviamo i nostri più calorosi saluti e preghiere in modo che gli obiettivi che oggi li uniscono possano essere presto realizzati. Dobbiamo ringraziare la Commissione Americana sull'Africa che ha reso possibile per noi inviarvi queste parole oggi. La causa che sposate è nobile e giusta e, con l'aiuto di Dio Onnipotente, avrà un esito positivo.

18 aprile 1960
 


tratto da Important Utterances of H.I.M . Emperor Haile Selassie I 1963-1972 One Drop Books New York, NY  pp.204-207

a cura di Bro Manuel


 

All Man Acts

Brevi Cronache Sommarie del Regno del Figlio dell’Uomo


Con questo ed il prossimo numero si concluderà, per un periodo di tempo indeterminato, la pubblicazione di questa rubrica. Con la speranza che, attraverso l’ispirazione delle opere quotidiane compiute dal nostro amato Sovrano, e che sono state accennate in questo spazio sulla newsletter, ognuno dei lettori possa farsi carico di mettere in pratica, anche in atti semplici e nei propri comportamenti, alcune fra le tante che in questa rubrica abbiamo elencato. Ciò deve valere non solo a livello individuale ma anche nell’ambito collettivo.
           
Abbiamo scelto di pubblicare questo “approfondimento” di una notizia già riportata nell’All Man Acts dei mesi precedenti su questa rubrica, in quanto si tratta di un incontro ricco di spunti di meditazioni e di insegnamenti, riguardanti due protagonisti che hanno influito entrambi sulla storia civile e religiosa dell’attuale secolo.
           
L’incontro di cui si parla qui sotto è stato anche propedeutico per quello che sarebbe avvenuto l’anno successivo, il 7 novembre del 1970, in Vaticano, nel corso della visita ufficiale e del soggiorno di Ababa Janhoy in Italia.

Una Data Storica (Ginevra 10 Giugno 1969)

           
Una frase, una frase soprattutto è rimasta nel ricordo di chi, il 10 giugno del ’69, si trovò testimone di uno storico avvenimento. Il pomeriggio volgeva al tramonto e nell’ampia sala del palazzo dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Ente voluto dalle Nazioni Unite che impersonifica la dignità e l’importanza del lavoratore, inteso come fattore primo insostituibile per il progresso dell’umanità), varie migliaia di persone seguivano assorte le parole del Papa. Paolo VI era giunto al mattino in aereo da Roma. A Ginevra erano previste due tappe principali della sua prima visita nella patria di Calvino, il riformatore, il padre del protestantesimo: una qui all’OIL e l’altra presso il Consiglio mondiale delle Chiese, l’organismo che riunisce appunto i protestanti delle varie chiese europee.
           
Il significato della visita del Papa all’OIL era chiarissimo: esaltare la funzione primaria del lavoratore e il rispetto che deve sempre accompagnare la sua incessante, spesso oscura, opera vitale nell’economia del mondo intero. Ma il suo discorso non si esaurì in una esaltazione retorica dell’«homo faciens», come dicevano i latini, toccò altri temi come quello del grandissimo divario che ancora separa i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo, divario che – come è stato notato dai più acuti economisti – lungi dal decrescere, tende di anno in anno ad allargarsi. Esattamente come il profilo di una forbice. Lo stesso tema sarebbe stato ripreso un’ora dopo nel discorso dell’altro grande personaggio che ha contribuito a rendere storica la visita di Paolo VI, Sua Maestà Haile Selassie I. L’Imperatore d’Etiopia era arrivato espressamente a Ginevra per l’occasione.
           
Ed a Lui si riferisce la frase che testimonia della stima e della considerazione che il Sovrano ha sempre goduto presso il Capo della Chiesa di Roma. «Ma tutte le opere di uomini ben intenzionati che, secondo il proprio modo di vedere, si adoperano per un mondo migliore, a nulla giovano se non si tiene conto del Grande Dio e dei più alti destini dell’uomo. Sotto questo riguardo Vostra Maestà Imperiale – ha sottolineato il Papa – si è meritata la stima di tutti per il rispetto mostrato in tutto il tutto il Vostro operare verso la grande dignità della natura dell’uomo, e per aver dato esempio di personale coraggio e forza d’animo in una vita non priva di sacrifici.
           
L’omaggio al Personaggio, che da 33 anni mancava da Ginevra, da quando cioè parlò alla Società delle Nazioni in una sala che oggi non esiste più, non poteva essere più chiaro e illuminante.

Un altro tema importantissimo toccato da Santo Padre nel discorso indirizzato all’Imperatore si riferiva alla pace mondiale, per il raggiungimento della quale non si può tralasciare il benché minimo sforzo: un impegno che dovrebbe essere comune a tutti i governanti, nelle cui mani sono i desini di milioni di uomini che non chiedono altro che di condurre in serenità e salute la propria parentesi terrena.
           
«Siamo lieti di aver avuto questa opportunità di trattenerci con Voi sui problemi di comune interesse – ha detto il Papa rivolto all’Imperatore – e ancora una volta ci siamo trovati uniti insieme nel fervido sforzo diretto agli stessi scopi di pace e unità fra gli uomini. L’interessamento della Vostra Maestà Imperiale per la causa della pace è ben noto, e la fatica e gli sforzi da Voi compiuti a questo fine hanno suscitato l’ammirazione di tutti gli uomini retti. Poiché anche noi aneliamo alla pace, Vi esprimiamo la nostra sincera gratitudine per i Vostri incessanti sforzi che noi abbiamo appoggiato con entusiasmo. La pace, tuttavia, non è solo un’opera negativa, la vera pace è positiva: essa implica unità, carità, comprensione, tolleranza e perdono. Quest’aspetto positivo della pace spicca pure in maniera eminente nelle opere della Maestà Vostra Imperiale per il bene dell’umanità e specialmente in quel grande compito che Voi vi siete assunto e per il quale avete lavorato con coraggio: l’unione dell’Africa».
           
Quest’Africa, nella quale tanti motivi di squilibri e contrasti drammatici persistono, è stata al centro delle conversazioni che Paolo VI e Sua Maestà l’Imperatore Haile Selassie I hanno avuto sempre a Ginevra al termine dei discorsi ufficiali. Uno dei principali argomenti discussi è stato il sanguinoso e ancora insoluto conflitto in Nigeria. Il Biafra, la provincia secessionista del generale Ojukwu, non cede, anzi in questi ultimi tempi sembra che abbia riguadagnato parte del terreno perduto sotto l’incalzare delle truppe governative del capo della Nigeria generale Gowon. I morti hanno già superato la spaventosa cifra del milione, i più, stroncati dalla fame. Mentre continuano i voli della Croce Rossa internazionale, della Caritas vaticana e del Consiglio mondiale delle Chiese, con soccorsi di viveri e medicinali, nelle foreste attorno al fiume Niger si combatte selvaggiamente per il possesso dei ricchissimi pozzi di petrolio cui da tempo fanno la corte le maggiori compagnie petrolifere dell’occidente. In questo quadro di tragedia, una tragedia iniziata nel maggio del ’67 e della quale non si vede ancora lo sbocco, si è tentata da più parti un’opera di mediazione: ci ha provato Londra con il suo ministro del Commowealth Smith, ci ha provato l’OUA, (l’Organizzazione degli Stati Africani).

Ma lo sforzo più appassionato e continuo è stato quello dell’Imperatore. In almeno tre occasioni Sua Maestà Haile Selassie ha invitato i rappresentanti delle parti contendenti ad Addis Abeba, al fine di trovare una base d’intesa su cui allacciare i veri e propri negoziati di pace, quelli che in termini diplomatici vengono battezzati “pre-negoziati”. Ogni volta però l’ostinazione e l’odio hanno avuto il sopravvento sui consigli alla moderazione che provenivano dalla capitale etiopica. Così la situazione è ancora ad un punto di «pericoloso stallo», come ha detto solo qualche mese fa, appunto ad Addis Abeba, il segretario dell’OUA, Diallo Telli, che si rifaceva alle preoccupazioni espresse a New York da segretario dell’ONU U Thant.
(segue nel prossimo numero della newsletter)

 


Estratto da: Etiopia Illustrata: Rassegna Politica Culturale Economica”; anno VIII, Asmara, Dicembre 1969.
 


a cura di ghebreSelassie


 

Anqäzä Haymanot RasTafari

 

(La Porta della Fede RasTafari)

Discorso Pronunciato dal Presidente in Occasione delle Celebrazioni dell’80.mo Anniversario dell’Incoronazione di Sua Maestà Imperiale Hayle Selassie I, il 2 novembre 2010.
(Prima parte)
           

La felicità è il fine della vita virtuosa.
           
Infatti tutto ciò che si compie con sollecitudine ha un preciso rapporto con un oggetto determinato; e come l’arte medica mira alla salute e come il fine dell’agricoltura è di procacciare i mezzi di sussistenza, così anche l’acquisizione della virtù mira allo scopo per cui chi vive conformemente ad essa sia felice. Questa è la somma e il fine di tutto ciò che si concepisce secondo il bene.
           
La natura divina potrebbe essere detta a buon diritto incarnare il senso vero e proprio, quello che è insito e pensato in questo elevato concetto.
           
In questo modo il grande Paolo definisce Dio, ponendo la beatitudine al primo posto fra tutti gli attributi teologici; esprimendosi con queste parole nella prima delle sue lettere a Timoteo 6, 15-16: «Il Beato e solo Potente, il Re dei re e Signore dei signori, che Unico possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile che nessun uomo vide né può vedere, a cui vanno onore e potenza.
           
Tutti questi alti concetti riguardo al divino sono, per così dire, almeno secondo il mio ragionamento, la definizione della felicità.
           
Infatti se ci fosse chiesta la natura della beatitudine non daremmo risposta empia se, seguendo la voce di Paolo, dicessimo che può essere definita felicità in senso proprio e primario quella natura che è al di sopra di tutto, mentre la felicità propria dell’uomo è quella che in certa misura si genera e si definisce per partecipazione a ciò che è realmente Essere, che è appunto la natura del partecipato. L’assimilazione a Dio, Qadamawi Hayle Selassie è così la felicità umana dei Rastafariani.
           
Poiché quindi il vero Bene è in realtà al di sopra del bene e questo solo e felice e desiderabile per sua natura e chi partecipa di esso diviene beato, giustamente la divina Scrittura dei Salmi ci mostra la via verso questo con una concatenazione sapiente e naturale, con un insegnamento apparentemente semplice e rustico, trattando in modo sistematico con molti ornamenti ed immagini il metodo per conquistare la beatitudine.
           
Può esser considerata espressione del suddetto concetto già il 1° Salmo, quando il discorso, dopo aver diviso la virtù in tre parti, ascrive la felicità a ciascuna partizione secondo una conveniente porzione, dapprima con il definire beata l’estraneazione al male, in quanto inizio dell’inclinazione al meglio, e dopo di questa, la cura delle cose elevate e più divine, in quanto suscitatrice del possesso di ciò che è meglio, ed infine l’assimilazione a Dio che è concessa a coloro che si rendono perfetti attraverso i due gradini che abbiamo esposto, ed in grazia di essa, sono beatitudini anche quelle considerate in precedenza. Si allude ad essa come l’albero che fiorisce in ogni stagione, al quale assomiglia la vita resa perfetta dalla virtù.
           
Per conoscere più dettagliatamente l’insegnamento della virtù che è illustrato dal testo attraverso l’ammaestramento dell’intero Salterio, sarebbe opportuno che spiegassimo tra di noi, premettendo una specie di discorso metodico coerentemente strutturato, come sia possibile che chi ami questo genere di vita diventi virtuoso. Ed in tal modo potremo conoscere l’ordine coerente dell’insegnamento di cui abbiamo parlato.
           
Chi dunque si propone di mirare alla virtù deve in primo luogo distinguere la vita buona da quella disdicevole, entrambe definite da contrassegni loro propri, affinché abbai di esse un concetto ben distinto, non inquinato da elementi ibridi dell’una e dell’altra.
           
Secondo la mia opinione vi sono anche altri segni della specificità di questi tipi di vita, ma, i più generali di tutti sono questi: la gioia che è da essi prodotta negli uomini si divide in sensibile ed intellettuale, il vizio gode della sensazione, la virtù dell’anima. A questo consegue che la mente degli ascoltatori è distolta dal male e familiarizzata dal bene per opera dell’elogio e del biasimo: infatti il biasimare la vita malvagia produce l’odio per il vizio, mentre l’elogio delle buone azioni spinge a desiderare ciò che è più lodevole. Dopo aver accertato questa distinzione lascio a voi la meditazione su come tutta al dottrina dei Salmi, che allontana dal male e spinge al bene, ci sia stata tramandata in conformità a questa trattazione metodica che abbiamo accennato.
           
Attraverso poi questa ricerca e iniziando dagli argomenti finali, che vi ho accennato, comprenderemo il metodo grazie al quale lo stile di vita virtuoso, che è così duro e severo, e l’insegnamento dei misteri, che è così enigmatico, e la teologia, che è così inaccessibile e nascosta dietro a dottrine non facilmente comprensibili, sono stati resi così assimilabili e dolci da parte di Davide, che questo insegnamento non è appannaggio esclusivo degli sforzi conoscitivi dell’anima di uomini perfetti e già purificati nei sensi dell’anima, ma diviene acquisizione comune per tutti gli uomini e le donne, reca piacere ai bambini come un giocattolo, per gli anziani sostituisce il bastone ed il riposo, tantoché colui che è lieto crede che sia suo il dono di questo insegnamento e colui che è triste per una disgrazia pensa che il dono di una tale opera sia elargito per lui.
           
Qual è dunque il segreto di questo piacere indicibile e divino che Davide proferisce nei suoi insegnamenti e grazie alla quale la dottrina diventa così accettabile per la natura umana? Si potrebbe indicare una causa del tutto terrena del fatto che meditiamo con piacere di essi, asserendo che il cantare questi detti sia la ragione per la quale li giudichiamo piacevoli. Quand’anche ciò fosse vero, in effetti la sapienza che si esplica nel canto racchiude un significato più profondo di quello comunemente inteso.
           
Nel canto dei Salmi vi è l’accordo perfetto di tutta la creazione in se stessa, è un inno elevato con tale ritmo alla gloria di Dio irraggiungibile e indicibile, una specie di armonia musicale che costituisce un inno divino e ben connesso nei suoi componenti alla Potenza che tutto domina.
           
E Davide stesso fa menzione di questo dopo averlo udito, quando in un suo Salmo dice: «Lodano Dio tutte le potenze dei cieli e la luce delle stelle, il sole, la luna e i cieli dei cieli e le acque che stanno al di sopra dei cieli …» e nomina a questo punto l’acqua e poi di seguito tutto quanto la creazione contiene. Infatti quella che rende tutte le cose concordi e in sintonia fra di loro mediante l’ordine, l’armonia e la concatenazione, è la prima, originaria e vera musica che l’Artefice del tutto abilmente intona con l’inesprimibile ritmo della sapienza per mezzo delle cose che sempre sono.
           
Se dunque l’intero ordine cosmico è una specie di armonia musicale «di cui Dio è l’Artefice e il Demiurgo», come dice l’Apostolo (Lettera agli Ebrei 11, 10), e se l’uomo è un microcosmo, come anche alcuni grandi filosofi asseriscono, per di più, noi diciamo, fatto ad immagine dell’Artefice del cosmo, allora è naturale che ciò che la ragione conosce del macrocosmo valga anche per il microcosmo; la parte di un intero è infatti completamente omogenea all’intero. Come in una piccola scheggia di vetro si può vedere l’intero disco del sole riflesso nella parte luminosa, per quanto lo permetta la sua piccolezza, così anche nel microcosmo, intendo nella natura umana, si conserva tutta la musica universale proporzionata all’intero, nella misura in cui la parte può contenerlo.
           
Tutto questo è dimostrato anche dal fatto che la natura del nostro corpo è stata forgiata ingegnosamente come uno strumento predisposto alla musica. Vedi il condotto della trachea, simile ad un flauto, il palato che è come un ponticello della lira, la citarodia (il canto accompagnato dal suono della cetra), che avviene tramite lingua, guance e bocca come se fossero corde e plettro?
           
Poiché abbiamo dimostrato che tutto quello che è naturale è proprio della natura, e che la musica è conforme alla nostra natura, per questo il grande Davide mescolò canto e filosofia della virtù rendendo più piacevoli come col miele i dogmi più profondi, e la nostra natura, con questo in qualche modo osserva e cura se stessa. E la cura della nostra natura è il buon ritmo di vita che è indicato in modo simbolico dal canto. Forse è proprio questo a costituire un’esortazione ad una più elevata condizione di vita, cioè il fatto che il modo di vivere di quelli che amano la virtù non deve essere stonato, né discordante o disarmonico.
           
Perciò la stessa storia attribuisce a Davide le imprese di questa musica divina, poiché avendo trovato Saul folle e fuori di sé, guarì col canto la sua affezione; cosicché egli riacquistò la facoltà di ragionare in modo normale. È chiaro da ciò il simbolo della melodia che indica la repressione delle passioni che sorgono in noi in vario modo dagli eventi della vita.
           
Questo è dunque il modo in cui è ammansito il cibo, a causa del quale il nutrimento degli insegnamenti è come raddolcito da condimenti.

(segue nel prossimo numero della newsletter)

 


a cura di ghebreSelassie


 

Commento al Vangelo di San Giovanni

di Yohannes Afeworq
discorso XLVI
           
Discorso quarantasettesimo (Prima parte)
        
Ma Iyasus disse loro: «In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita eterna in voi. Chi invece mangia la mia carne, e beve il mio sangue, ha la vita in se stesso»1.
           

1. Quando parliamo di cose spirituali, non vi sia niente di terreno nelle vostre anime, niente di mondano, ma allontaniamo da noi e scacciamo tutti i pensieri di tal genere e dedichiamoci interamente all’ascolto delle parole divine. Quando il re arriva in una città, ogni tumulto viene sedato; a maggior ragione, quando lo Spirito ci parla, è nostro dovere ascoltarlo nel massimo silenzio e con grande timore. Le parole che oggi abbiamo letto, sono tali da incutere spavento. Ascoltatele: «In verità, in verità vi dico – afferma il Signore – se uno non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà la vita in se stesso». Siccome prima avevano detto che ciò era impossibile, non solo dimostra che è possibile, ma anche che è assolutamente necessario che sia così. Per questo soggiunge: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna ed Io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Siccome precedentemente aveva detto: «Chi mangia questo pane non morirà in eterno», e probabilmente per costoro ciò aveva suonato come un’offesa (come in un caso precedente, quando, cioè, dicevano: «Abramo è morto, i profeti sono morti, e come mai Tu dici: “non assaggerà la morte”?»), Egli porta il discorso sulla risurrezione, per risolvere la questione e per dimostrare che non morirà in eterno. Tratta poi con insistenza dei misteri, per dimostrare che era assolutamente necessario e indispensabile istruirli. «La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda» 2. Che cosa significa ciò? O vuole intendere che questo è il cibo vero, in quanto salva l’anima, oppure vuole rassicurarli riguardo a quei suoi discorsi, in modo che non credano che quanto ha detto prima sia un enigma o una parabola, ma si convincano che davvero è necessario mangiare il suo corpo. Quindi afferma: «Chi mangia la mia carne, dimora in Me» 3, per far capire che entra in comunione con Lui.
           
Le parole che seguono non sembrano essere coerenti con queste, se non le analizziamo accuratamente. Quale nesso logico sussiste, infatti, se si aggiungono, dopo le parole «chi mangia la mia carne dimora in Me», queste altre: «Come il Padre, che vive, ha mandato Me, e Io vivo a causa del Padre» 4? Queste espressioni sono tra loro in perfetto accordo, e, proprio perché aveva parlato tante volte della vita eterna, ora, a conferma di ciò, aggiunge: «dimora in Me». Se infatti dimora in Me e Io vivo, è chiaro che anche lui vivrà. Dice poi: «Come il Padre che vive ha mandato Me». Si tratta di un paragone, di una similitudine, il cui significato è: «Io vivo come il Padre». E perché nessuno lo creda non generato, precisa poi che vive «a causa del Padre», non intendendo dire certo di aver bisogno di subire l’azione altrui per vivere. Anche precedentemente, infatti, per prevenire il sorgere di dubbi su questo punto, diceva: «Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso». Se avesse bisogno di subire l’azione altrui per vivere, ne conseguirebbe, o che il Padre non gli ha concesso questo, e cioè che tale affermazione sarebbe falsa, oppure, se veramente glielo ha concesso, non avrà dopo bisogno dell’aiuto di nessuno. Che vuol dire dunque «a causa del Padre»? Qui indica soltanto la causa vera e propria. È come se dicesse: «Come vive il Padre, così anch’Io vivo». «Così chi mangia Me, vivrà anche lui a causa di Me». Non intende parlare qui di una vita qualunque, ma di quella che va tenuta in gran pregio. È evidente che non si parla qui della vita pura e semplice, ma di quella gloriosa e ineffabili, giacché anche gli infedeli e i non iniziati vivono, pur non mangiando la sua carne. Vedi dunque che non si tratta di questa vita, ma di quell’altra? È come se dicesse: «Chi mangia la mia carne, quando morirà non andrà in perdizione e non sarà punito». Anzi, non parla neppure della risurrezione comune (tutti, infatti, risorgeranno), ma di quella beata e gloriosa, che costituirà il premio per gli eletti.
           
«Questo è il pane disceso dal cielo. Non già come i padri che mangiarono e morirono; chi mangia questo pane, vivrà in eterno» 5. Ripete di frequente questo concetto, per imprimerlo nella mente degli ascoltatori (questo era infatti era il punto culminante della sua dottrina) e per rafforzare la fede nella risurrezione e nella vita eterna. Inserisce poi qui il concetto di risurrezione, sia perché aveva parlato di «vita eterna», sia per dimostrare che quella vita non comincia ora, ma solo dopo la risurrezione. «Ma da dove – tu mi chiederai – ciò risulta evidente?». Dalle Scritture. Egli li rimanda sempre ad esse, invitandoli ad imparare da esse. Ma quando disse: «Colui che ha dato la vita al mondo», li incitò all’emulazione, nel timore di dover constatare, con rammarico, che altri beneficiavano di tale grazia, restandone essi esclusi. Ricorda poi di frequente la manna, sia per mettere in risalto la differenza, sia per indurli alla fede. Se fu possibile sostenere la vita per quarant’anni, senza messe, senza frumento e senza possedere neanche la più rudimentale attrezzatura, a maggior ragione Egli avrebbe potuto farlo in quell’occasione, essendo venuto per scopi ben più importanti. D’altra parte, se quelle cose non erano se non delle prefigurazioni della realtà e tuttavia essi raccoglievano senza sudori e fatiche il cibo quotidiano, a maggior ragione sarà così ora, dato che grande è la differenza, sia perché non si muore mai, sia perché si gode la vera vita. Molto opportunamente Egli accenna di frequente alla vita, perché essa è cosa molto desiderabile per gli uomini e niente è così dolce come il non morire. Anche nella vecchia alleanza veniva infatti promessa una vita lunga; ora però non si tratta soltanto di longevità, ma di una vita senza fine. Nello stesso tempo vuol dimostrare di revocare ora il castigo meritato dal peccato, annullando quella sentenza di morte, per sostituire ad essa non una qualunque vita, ma la vita eterna, contro la quale appunto era stato emanato quel decreto. Questo discorso lo fece in una sinagoga mentre insegnava a Cafarnao 6, là dove erano avvenuti prodigi più che in ogni altro luogo, per cui avrebbero dovuto ascoltarlo con maggior interesse.
           
2. – Ma perché insegnava nella sinagoga e nel tempio? Sia perché voleva attirare a sé la folla che si radunava in quei luoghi, sia per dimostrare ad essa che Egli non si opponeva al Padre.
           
Molti dei suoi discepoli, dopo averlo ascoltato, dissero: «È duro questo linguaggio» 7. Che vuol dire «duro»? Significa aspro, difficile, che costa fatica. Eppure Egli non diceva niente di tal genere: non parlava infatti di cose riguardanti la condotta morale, ma delle verità di fede, insistendo nella necessità di aver fede in Lui. Perché dunque è duro questo discorso? Forse perché promette la vita e la risurrezione? Forse perché Egli dice di essere disceso dal cielo? Forse perché afferma che nessuno può salvarsi, se non mangia la sua carne? Di grazia, sono queste parole dure? Chi mai oserebbe sostenere una cosa simile? Che vuol dire dunque il termine «duro»? Vuol dire che è difficile da capirsi, che è troppo al di sopra della meschinità, che incute spavento. Credevano infatti che Egli parlasse di cose che superavano la sua dignità ed il suo rango. Per questo dicevano: «Chi lo può ascoltare?». Probabilmente per trovare una scusa per sé, essendo sul punto di andarsene via. Iyasus, conoscendo dentro di sé che i discepoli mormoravano per le sue parole 8 (era tipico infatti della divinità rivelare pubblicamente i segreti pensieri), dice poi: «Vi scandalizzate di questo? E se vedrete il Figlio dell’uomo salire dove era prima?» 9. La stessa cosa disse a Natanaele: «Perché Io ti ho detto che ti ho visto sotto il fico, tu credi? Vedrai cose ben più grandi di queste» 10, e a Nicodemo: «E nessuno è salito al cielo, se non il Figlio dell’uomo che è in cielo» 11. Ma forse aggiunge altre difficoltà alle difficoltà? Niente affatto: tenta di attirarli a sé con la grandezza e con l’abbondanza dei suoi insegnamenti. Infatti Colui che aveva detto semplicemente: «Sono disceso dal cielo», se non avesse aggiunto niente di più, li avrebbe probabilmente scandalizzati; dicendo invece: «Il mio corpo è vita del mondo» e: «Come il Padre che vive mi ha mandato e Io vivo a causa del Padre», e ancora: «Sono disceso dal cielo», risolve le difficoltà. Poiché uno che va dicendo di sé qualcosa di troppo grande, può essere sospettato di mentire, ma se poi aggiunge parole simili a queste, dissipa ogni sospetto. Si sforza infatti di fare e di dire tutto ciò che possa dissuaderli dal ritenere che Lui sia figlio di Giuseppe. Non disse perciò queste cose per accrescere lo scandalo, ma per toglierlo di mezzo. In realtà, chi lo avesse ritenuto figlio di Giuseppe, non avrebbe accettato quanto diceva, ma chi si fosse convinto che Lui era sceso dal cielo e che sarebbe di nuovo salito lassù, avrebbe prestato attenzione alle sue parole più facilmente.
           
Dopo tutto ciò prospetta anche un’altra soluzione, dicendo: «Lo Spirito è quello che vivifica, la carne non giova a niente» 12, cioè, ogni cosa che di Me viene detta, deve essere ascoltata in senso spirituale, perché chi ascolta con mentalità materialistica, non ne ricava alcun profitto, né beneficio. Erano infatti tipici esempi di mentalità materialistica l’avanzare dei dubbi sul modo con cui aveva potuto scendere dal cielo e il ritenerlo figlio di Giuseppe, come pure l’espressione: «Come può costui darci a mangiare la sua carne?». Tutto era interpretazione in senso materiale di concetti che invece andavano intesi in senso mistico e spirituale. «Ma come potevano costoro – tu dirai – avere un’idea esatta di quel che significava mangiare la sua carne?». Sarebbe stato indubbiamente necessario aspettare il momento opportuno e interrogarlo in proposito, non già desistere. «Le parole che vi ho detto sono spirito e vita», cioè sono divine e spirituali, non hanno niente di corporeo e non vanno messe in relazione con esigenze fisiche; la contrario, sono libere da ogni necessità di tal genere e sono al di sopra delle leggi a cui soggiacciono le cose di questo mondo; hanno, insomma, un altro e diverso significato. Come poi, in questo caso, parlò di spirito intendendo le cose spirituali, così, avendo parlato di carne, non intese parlare di ciò che è corporeo, ma dell’ascoltare con mentalità materialistica, alludendo nello stesso tempo anche a costoro che desideravano sempre e unicamente beni materiali, mentre avrebbero dovuto aspirare a beni spirituali. Giacché chi interpreta questi discorsi in senso carnale, non ne trae alcun profitto. E che dunque? La sua carne non è forse carne? Certo che lo è. E perché allora dice che la carne non giova a niente? Non parla qui della sua carne (non sia mai!), ma di coloro che ascoltano con mentalità di uomini carnali le sue parole. Che vuol dire dunque capire in maniera carnale? Considerare semplicemente secondo la lettera quanto ci viene detto senza riflettervi ulteriormente. Questo significa la parola «carnalmente». Non si deve però dare un tale giudizio sulle cose che vediamo, ma scrutare tutti i misteri con gli occhi interiori, cioè spiritualmente. Non è forse vero che colui che non mangia la sua carne e non beve il suo sangue, non ha la vita in se stesso? Come può essere allora vero che la carne non giova a niente, se senza di essa non possiamo vivere? Tu vedi che ciò non viene detto a proposito della sua carne, ma a proposito della loro maniera carnale di ascoltare.
           
«Ma ci sono alcuni tra voi che non credono» 13. Di nuovo, come è suo costume, eleva il tono del discorso, predice il futuro e mostra di esprimersi così, non per ottenere gloria presso di loro, ma perché ha di mira la loro salvezza. Dicendo poi «alcuni», allude ai discepoli. All’inizio di questo discorso, infatti, aveva detto: «Mi avete visto e non mi avete creduto»; qui invece dice: «Ma ci sono alcuni tra voi che non credono». Sapeva infatti, fin dall’inizio, chi erano quelli che non credevano, e chi era colui che doveva tradirlo. Diceva ancora: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a Me, se non gli sia concesso dal Padre mio» 14.
          
L’Evangelista allude in questo passo alla libera e spontanea elargizione da pare sua della salvezza ed insieme alla sua pazienza. Non senza ragione precisa «fin dall’inizio», perché tu ti renda conto della sua prescienza, poiché il Krestos conosceva chi lo avrebbe tradito anche prima di queste parole, non già soltanto dopo che costoro avevano cominciato a mormorare e si scandalizzavano, il che era prerogativa della divinità. Krestos quindi soggiunge: «Se non gli sia concesso dal Padre mio», per indurli a ritenere che suo Padre è Dio, non Giuseppe, e per mostrare contemporaneamente che non è cosa di poco conto credere in Lui. È come se dicesse: «Non mi turbano, non mi stupiscono quelli che non credono: Io già sapevo tutto ciò molto prima che accadesse: so già infatti a chi il Padre ha concesso tutto questo».
           
3. – Non credere però, udendo questa frase «ha concesso» che si tratti di una specie di destino, ma devi credere che riceve quel dono chi mostra di esserne degno. Da allora molti dei suoi discepoli tornarono indietro, e non giravano più con Lui 15. Appropriatamente l’Evangelista non disse che se ne andarono, ma che «tornarono indietro», per indicare che essi posero fine al progresso verso la virtù e che persero la fede che un tempo avevano, dal momento in cui si separarono da Lui. Ma non così si comportarono i Dodici. Perciò Egli dice loro: «Ve ne volete andare anche voi?» 16, per dimostrare che non ha bisogno né dei loro servigi, né della loro adorazione e che quindi non per tali motivi li conduceva con Sé. Come potrebbe infatti averne bisogno, dal momento che dice loro simili cose?
           
Ma perché non li ha lodati? Perché non ha avuto per loro parole di ammirazione? Prima di tutto per salvaguardare la propria dignità di maestro e in secondo luogo per dimostrare che era preferibile tirarseli dietro in tal maniera. Se li avesse lodati, essi avrebbero potuto credere di fargli un favore restando, e perciò avrebbero potuto credere di fargLi un favore restando, e perciò avrebbero ceduto ad un sentimento troppo umano; mostrando invece di non avere affatto bisogno della loro compagnia, Egli mise ancor più in risalto il loro attaccamento e nota con quanta prudenza ha parlato. Non ha detto infatti: «andatevene», come si sarebbe espresso se avesse voluto scacciarli, ma ha chiesto: «Ve ne volete andare anche voi?», frase che escludeva ogni imposizione e costrizione da parte sua e che dimostrava il suo desiderio che rimanessero attaccati a Lui, non per una sorta di vergognoso ritegno, ma per gratitudine. Con l’evitare di accusarli apertamente e col trattarli invece dolcemente, ci mostrò un esempio di come comportarsi saggiamente in simili circostanze. Noi invece ci comportiamo in maniera del tutto opposta, ed è naturale che sia così, perché facciamo tutto sotto l’impulso dell’ambizione personale. Per questo riteniamo che la nostra riputazione venga diminuita, se i nostri servitori ci abbandonano. Krestos, in tal modo non li adulò, né li respinse, ma rivolse loro una domanda. Non era dunque questo il comportamento di uno che li disprezzava, bensì di chi non voleva trattarli con l’imposizione e la costrizione. Restare con Lui a tali condizioni equivaleva ad andarsene. Che dice dunque Pietro? «Da chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna. E noi crediamo e abbiamo conosciuto che Tu sei il Krestos, Figlio del Dio vivente»» 17. Vedi che non furono le sue parole a suscitare scandalo, ma la pigrizia, l’inerzia e la malvagità dei suoi ascoltatori? Giacché anche se non avesse detto ciò, essi si sarebbero ugualmente scandalizzati e sarebbero restati nella loro ostinazione, sempre preoccupati del cibo materiale e attaccati alle cose terrene. D’altra parte costoro avevano ascoltato insieme a quegli altri, ma dimostrarono di essere animati da opposti sentimenti, esclamando: «Da chi ce ne andremo?». Queste parole sono indizio di un grande affetto. Dimostrano infatti che essi amano il loro Maestro più di tutti, più dei loro padri, delle loro madri e di tutti i loro beni, e che, allontanandosi da Lui, non avrebbero la possibilità di trovare un rifugio altrove. Poi, perché non sembrasse aver detto: «Da chi ce ne andremo?», perché nessuno li avrebbe accolti, Pietro aggiunge: «Tu hai parole di vita eterna». Gli altri avevano ascoltato le sue parole in maniera carnale e con mentalità troppo umana; essi invece lo ascoltarono in maniera spirituale, affidandosi in tutto alla fede. Per questo il Krestos diceva: «Le parole che vi ho detto sono spirito», cioè, non dovete avere il sospetto che la mia dottrina soggiaccia alla rigida concatenazione e alla necessità propria degli eventi naturali. Non sono di questo genere le cose spirituali; esse si rifiutano di sottostare alle leggi terrene. Lo stesso concetto spiega Paolo dicendo: «Non dire in cuor tuo “chi salirà al cielo?”, cioè, per farne discendere Krestos; oppure: “Chi scenderà nell’abisso”, cioè, per condurre su Krestos dai morti» 18. «Tu hai parole di vita eterna». Essi avevano già accettato la risurrezione e la sorte che allora verrà assegnata a ciascuno.
           
Osserva, ti prego, come Pietro, che ama i suoi fratelli, difende la causa di tutto il gruppo; non disse infatti: «ho conosciuto», ma: «abbiamo conosciuto»; nota anzi come egli, parlando, a differenza dei Giudei, segue la traccia dei discorsi del Maestro. Essi infatti dicevano: «Questi è il figlio di Giuseppe», mentre lui dice: «Tu sei il Krestos, il Figlio del Dio vivente», e ancora: «Tu hai parole di vita eterna»; probabilmente perché aveva sentito dire da Lui più volte: «Chi crede in Me ha la vita eterna». Pietro dimostra insomma di custodire nella sua memoria tutto quanto Egli ha detto, tanto da usare quasi le sue stesse parole. Che fece allora Krestos? Non lodò, né espresse la sua ammirazione per Pietro, benché avesse fatto ciò in altre circostanze. Che cosa dice dunque? «Non vi ho scelto Io, voi Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo» 19. Dato che Pietro aveva detto: «Anche noi abbiamo creduto»: toglie dal loro numero Giuda. Finora egli non aveva detto niente riguardo ai discepoli, ma allorché Iyasus gli chiede: «Voi chi dite che Io sono?», Pietro risponde: «Tu sei il Krestos, il Figlio del Dio vivente» 20. A questo punto però siccome ha detto: «noi crediamo», giustamente non considera Giuda come appartenente al loro gruppo. E fa questo per smascherare la perfidia del traditore con molto tempo di anticipo; pur sapendo che a nulla avrebbe giovato, fa tutto ciò che era in suo potere.
(fine della prima parte del capitolo XLVII)


Note: 1 Gv. 6, 53-54; 2 Gv. 6, 55; 3 Gv. 6, 56; 4 GV. 6, 57; 5 GV. 6, 58; 6 Gv. 6, 59; 7 Gv. 6, 60; 8 Gv. 6, 61; 9 Gv. 6, 62; 10 Gv. 1, 50; 11 Gv. 3, 13; 12 Gv. 6, 63; 13 Gv. 6, 64; 14 Gv. 6, 64-65; 15 Gv. 6, 66; 16 Gv. 6, 67; 17 Gv. 6, 68-69; 18 Rom. 10, 6-7; 19 Gv. 6, 70; 20 Mt. 16, 15-16.


a cura di ghebreSelassie


 

Report Celebrazione "Giornata dei Martiri" -Roma- 2019 

Il 17 febbraio scorso si è tenuta, presso il teatro della scuola “Di Donato” 1 a Roma, la celebrazione annuale denominata “Giornata dei Martiri”; ossia il ricordo del sacrificio di centinaia di migliaia di Etiopi innocenti che persero la vita durante l’aggressione e l’occupazione dell’Etiopia da parte dell’Italia fascista dal 1935 al 1941.

La manifestazione quest’anno ha compiuto il suo ventennale; sono infatti ormai trascorsi tutti questi anni da quando, dapprima come Associazione Exodus: Ethiopian Cultural Service ed in seguito anche come Federazione delle Assemblee RasTafari in Italia abbiamo il grande onore e l’impegno di organizzare e promuovere questo considerevole e solenne evento.
           
Quest’anno la sala del teatro ha accolto un gran numero di pubblico, più che nei precedenti anni, e gli ospiti relatori sono stati anch’essi quest’anno molto numerosi.
           
Sulle pareti del locale in cui l’incontro si è svolto, come da consuetudine, è stata esposta una mostra che, attraverso delle immagini e delle fotografie dell’epoca, illustrava alcune delle stragi, delle atrocità commesse dagli italiani e delle vittime di quel genocidio ma anche dei valorosi etiopi che hanno combattuto per la libertà del proprio Paese e per il loro e nostro Amato Sovrano Haile Selassie I e che sono sopravvissuti a quella drammatica guerra.
           
La serata è stata aperta con un saluto di benvenuto da parte mia, anche a nome dei relatori, a cui faceva subito seguito la preghiera introduttiva del Rev. Abba Tekestu, parroco della Chiesa Ortodossa Etiopica “Qeddest Selassie” di Roma.
           
Dopo aver partecipato alla preghiera, accompagnata con la suggestiva accensione di candele da parte del pubblico, a voler simboleggiare la luce della fede nella vittoria del bene sul male, sentimento prevalente e manifesto in quegli anni di sofferenza fra i nostri padri e le nostre madri, sorelle e fratelli d’Etiopia, interveniva S. E. Wayzero Zenebu Tedesse, Ambasciatrice d’Etiopia a Roma. Dopo aver ricordato la sofferenza del proprio popolo in quegli anni dolorosi del conflitto italo-etiopico, l’ambasciatrice si soffermava sull’attuale situazione del Paese, sul nuovo corso democratico intrapreso dal governo etiopico guidato dal Primo ministro, il Dr. Abiy Ahmed, grazie a Dio senza conflitti civili, e sull’entusiasmo e sul sostegno della popolazione d’Etiopia per questa nuova fase della sua storia, facendosi anch’essa interprete delle legittime e sacrosante aspirazioni della sua gente.
           
A conclusione del suo intervento la signora Zenebu faceva un appello ai presenti a sostenere questo nuovo e lodevole corso della storia etiopica, sia politicamente e sia finanziariamente, confidando in particolare nella generosità e nell’appoggio della diaspora etiope in Italia.
           
Subito dopo ha avuto inizio il recital della nostra cara amica e sorella Gabriella Ghermandi, scrittrice, attrice e cantora dell’Etiopia, che, attraverso il racconto della propria saga familiare e delle vicissitudini dei suoi parenti a quel tempo, ha suscitato interesse e commozione fra tutti i presenti. A lei noi tutti siamo molto grati, sia per le difficoltà che Gabriella ha dovuto affrontare per essere con noi quest’anno e sia perché è la terza volta che offre la sua disponibilità alle celebrazioni da noi promosse.
           
Dopo il recital di Gabriella prendevo la parola ed intrattenevo i presenti con il consueto resoconto di alcuni fra i più significativi avvenimenti che hanno caratterizzato l’aggressione e l’occupazione dell’Italia fascista ai danni dell’Etiopia. Un breve e succinto riepilogo che ha cercato di far emergere il senso e le conseguenze di quell’atto criminoso, che è stato indubbiamente il preludio ed il vero inizio della seconda guerra mondiale.
           
Dopo aver argomentato sugli atroci crimini commessi dagli italiani, sul lucido e drammatico appello del nostro Imperatore a Ginevra, che faceva trapelare il comportamento ambivalente ed ipocrita delle potenze occidentali che avevano aderito alla Società delle Nazioni e l’avvertimento che, in seguito a quell’atteggiamento remissivo, le forze del male avrebbero travolto anche l’Europa ed il mondo intero, sulla lunga serie di aggressioni, sulla spietatezza adoperata dagli invasori, sull’impiego sistematico dei gas e degli aggressivi  fra la popolazione inerme della capitalechimici letali e sulle nefandezze dei governanti, dei comandanti e dei responsabili delle forze armate italiane, abbiamo voluto sottolineare anche lo spirito con cui Sua Maestà l’Imperatore Haile Selassie I, nel giorno della vittoria e della liberazione dell’Etiopia invitava il suo amato popolo a concedere il perdono per quello che aveva dovuto subire:
           
«… Poiché oggi è un giorno di felicità per tutti noi, dal momento che abbiamo battuto il nemico; rallegriamoci nello spirito di Krestos. Non ripagate dunque il male. Non vi macchiate di atti di crudeltà, così come ha fatto fino all’ultimo istante il nostro avversario. State attenti a non macchiare il buon nome dell’Etiopia. Prenderemo le armi al nemico e lo lasceremo tornare a casa per la stessa via dalla quale è venuto …»
(Addis Abeba 5 maggio 1941)
         
Al mio intervento faceva seguito quello di Ato Ashenafi, (tra i membri promotori della costituente associazione “Unione per l’Etiopia”). Egli ha raccontato con puntualità ciò che è avvenuto ad Addis Abeba il 19 febbraio del 1937 e nei due giorni successivi. L’azione patriottica effettuata dalla resistenza etiopica con l’intento di colpire il generale criminale Graziani e gli altri gerarchi del suo seguito che ha scatenato una rappresaglia spietata. Una strage immane avvenuta ad Addis dal 19 al 21 febbraio che ha comportato circa trentamila vittime innocenti inermi. Strage dalla quale simbolicamente ha origine la data del 19 febbraio come ricorrenza commemorativa, che vuole ricordare in questo giorno tutti i martiri d’Etiopia.
           
Dopo Ato Ashenafi la parola è stata data ad un caro amico, l’ex presidente provinciale dell’ANPI Ernesto Nassi, che ormai da diversi anni è con noi in questa ricorrenza, e con il quale, insieme ad altri, abbiamo condiviso una lotta e delle manifestazioni di protesta contro l’edificazione del mausoleo in onore del generale R. Graziani nel comune di Affile, un paese nella provincia di Roma. Queste nostre amichevoli relazioni e militanze comuni venivano sottolineate nel suo breve e significativo intervento.
           
Era presente all’evento anche l’attuale presidente dell’ANPI di Roma, il Sig. Fabrizio De Sanctis, che esprimeva la solidarietà sua e della sua organizzazione alla nostra iniziativa e ci invitava a partecipare e collaborare in futuro alle iniziative che l’ANPI proporrà sia in ambito pubblico che in ambito scolastico.

A conclusione degli interventi veniva data la parola ad una giovane promessa della Comunità etiopica di Roma, Ato Sofonias, studente in giurisprudenza e deputato del Partito Democratico. Nel suo intervento Sofonias, a partire dagli anni bui del fascismo, giungeva ad argomentare sulle attuali relazioni tra l’Italia e l’Etiopia 2. Proprio di queste attuali relazioni diplomatiche Sofonias ne testimoniava un concreto esempio, avendo egli stesso usufruito attraverso una borsa di studio che gli ha consentito di proseguire i suoi studi nella Facoltà di Legge dell’Università di Roma.
           
La serata volgeva al termine e si concludeva con la preghiera di congedo a cura del nostro carissimo Rev. Abba Tekestu e con le manifestazioni di gratitudine dimostrate dal pubblico presente all’evento, che anche a conclusione della serata si intratteneva con noi manifestandoci stima ed affetto per l’ottima e solenne ricorrenza e lo spirito che l’ha animata.
           
Prima di congedarci definitivamente abbiamo voluto rendere un caloroso e sincero omaggio a tutti i martiri ed a tutti i combattenti etiopi, certamente presenti con noi in spirito, e abbiamo voluto auspicare il loro prezioso sostegno e la loro intercessione presso il Signore Dio nostro, affinché la nostra amata Patria d’Etiopia possa proseguire il suo luminoso cammino nella pace, nella giustizia, nella democrazia e nell’amore del suo Creatore e Signore che, al di là delle false convinzioni di questo mondo, è Colui che realmente la governa e regna su tutto l’universo.
           
Sia benedetto in eterno il Nome del Re dei re e Signore dei signori, Qadamawi Haile Selassie.
 
1) Questa è la terza volta che la celebrazione si tiene presso il teatro di questa scuola multiculturale situata nel cuore della Roma popolare. Per questo siamo particolarmente grati alle autorità di quella scuola e all’Associazione dei Genitori che gestisce gli spazi extrascolastici e che ci ospita sempre fraternamente.
2) Tali relazioni riguardano in particolare anche delle collaborazioni di carattere culturale ed accademico.


ghebreSelassie
Il contenuto di questa newsletter è a cura della Federazione Assemblee Rastafari in Italia, 2019
Una parziale riproduzione dei contenuti è possibile, citandone la fonte



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