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Singolare, femminile
lo schermo delle donne

- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole - 
#048 - Epica intima

Ciao <<Nome>>,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.

 

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Con Pachinko – La moglie coreana, serie originale di AppleTv+ tratta dall’omonimo bestseller della scrittrice Min Jin Lee, la showrunner Soo Hugh attraversa le generazioni e gli oceani intessendo nella “semplice” storia di una donna i fili dell’oppressione colonialista a quelli del melodramma familiare.

Pachinko racconta una storia molto specifica, precisamente situata nello spazio e nel tempo – che attraversa, entrambi, con passo fermo ma avvincente. C’è un pugno di personaggi aggregati attorno a Sunja: nata in un villaggio di pescatori nei dintorni di Busan, negli anni 10 del Novecento, cresciuta sotto le angherie dei colonizzatori giapponesi, emigrata a Osaka negli anni 30, nuovamente emarginata insieme agli altri zainichi, la folta comunità coreana in Giappone, sistematicamente vittima di razzismo, angherie e pregiudizi. Nella seconda delle due timeline preminenti, ritroviamo Sunja nel 1989, sempre a Osaka, ormai anziana e nonna dell’altro personaggio principale, il giovane Solomon, educato negli Stati Uniti, in università della Ivy League, e determinato a scalare i ranghi dell’alta finanza e del rampantismo Eighties. Pachinko è una storia di ritorni a casa – commoventi, mancati, impossibili – e con un ritorno a casa comincia: Solomon rientra in Giappone da New York con l’obiettivo di convincere, per conto del colosso bancario per cui lavora, un’anziana signora coreana a vendere la sua dimessa abitazione, che si trova proprio in mezzo ai piedi di un lucroso affare immobiliare. «Vattene in fretta» lo ammonisce la nonna Sunja. «Non è cambiato niente, qui, per quelli come noi».

La serie originale AppleTv+, la cui prima (e speriamo ardentemente non unica) stagione si conclude sulla piattaforma il 29 aprile, è una produzione statunitense realizzata quasi esclusivamente, oltre che da attori e maestranze coreani, da coreano-statunitensi di prima o seconda generazione. Min Jin Lee, autrice dell’omonimo bestseller da cui la serie è tratta (in Italia edito da Piemme) è nata a Seoul, ma si è trasferita negli Stati Uniti negli anni 70, quando aveva sette anni. La creatrice Soo Hugh, californiana di origini coreane e già co-showrunner di The Terror, ha recentemente lanciato in collaborazione con Universal il Thousand Miles Project, un programma per sviluppare soggetti e progetti incentrati sulle storie e le esperienze asiatiche. I due registi che si sono spartiti la serie, quattro episodi a testa, sono Kogonada – diventato celebre per i suoi acclamati videosaggi cinematografici – e Justin Chon – ex attore, ora regista, per esempio di Gook e Blue Bayou –: anche in questo caso, il primo è nato a Seoul, il secondo è statunitense figlio di genitori immigrati dalla Corea del Sud. Il cast, invece, è quasi interamente composto di attori coreani o giapponesi (alcuni delle grandi superstar, come la premio Oscar per Minari Youn Yuh-jung e il giovane divo Lee Min-ho, vero idolo in patria), coerentemente con la nazionalità dei personaggi che interpretano: fanno eccezione Jin Ha (l’interprete di Solomon), nato negli Stati Uniti, e Jimmi Simpson, che ricopre l’unico ruolo occidentale del cast.

Risalire alle origini e alle nazionalità del cast e della crew di Pachinko non è un semplice esercizio di curiosità o di puntigliosità. Ci serve innanzitutto a inquadrare il contesto industriale della serie che, certo, guarda alla tradizione del K drama, ma non è un prodotto d’importazione (come, per restare ad altri recenti mega successi coreani, Parasite e Squid Game), bensì pensato fin dall’inizio con spirito e sguardo internazionali. Pachinko è prima di tutto una storia di migrazioni, desiderate o imposte, una vicenda che è insieme specificamente coreana e senza patria, come rende esplicito anche il suo efficace trilinguismo. Parlata principalmente in coreano e giapponese (con l’inglese come terza lingua, quella degli affari), i due idiomi si mescolano spesso senza soluzione di continuità: i sottotitoli sono colorati di giallo per il coreano, di azzurro per il giapponese, rendendo lampante anche a un immediato livello visivo il passaggio mai casuale dall’uno all’altro, talvolta anche all’interno della stessa frase.

Tenere a mente che Pachinko è un prodotto anche statunitense, poi, è utile perché l’America è presenza invisibile ma innegabile nella storia che racconta. Innanzitutto per contrasto: la serie mette in scena un colonialismo e un razzismo non occidentali e non bianchi, con uno slittamento di prospettiva che ci allontana immediatamente da ogni euro o americanocentrismo. Ma, nello stesso tempo, l’ombra a stelle e strisce incombe, sia come minaccia della Storia (la timeline degli anni 30 si ferma, per ora, nel 1938, quando già soffiano venti di guerra) sia come sogno/ossessione che contraddistingue i personaggi principali, un obiettivo vagheggiato che cela sempre una verità amara o una disastrosa svolta degli eventi. È spalancandole un’irraggiungibile visione d’America che Honsu conquista Sunja; è la fissazione per il successo e l’assimilazione “americane” che motiva Solomon; è il desiderio irremovibile di mandare il figlio oltreoceano a segnare la rovina del padre di Honsu.

Il titolo di romanzo e serie, Pachinko, ha un doppio significato, letterale e metaforico: Mozasu, il secondogenito di Sunja e padre di Solomon, ha raggiunto il benessere in Giappone come proprietario e gestore di una sala da pachinko, tradizionale gioco d’azzardo (l’omologo occidentale più simile sono le slot machine) diffusosi enormemente in tutto il paese subito dopo la Seconda guerra mondiale, del tutto legale ma comunque associato a un vago stigma sociale (e spesso alla criminalità organizzata). Nel pachinko, piccole sfere argentee rimbalzano dentro una macchina simile a un flipper verticale, mentre il giocatore cerca d’indirizzarle verso i fori giusti. Come la slot machine, è tutta una questione di fortuna che dà al giocatore un’illusione di controllo, indispensabile per spingerlo a giocare. Ma – spiega lo stesso Mozasu all’inizio della serie – il pachinko è anche lievemente truccato: quel tanto che basta a lasciare al giocatore una minima chance di vincere e contemporaneamente tenere al sicuro e far guadagnare sempre il banco. Più di una volta, nella serie, qualcuno fa riferimento alla speranza di una vita migliore, in un caso associandola direttamente al Sogno americano: un gioco truccato, che dà l’illusione sufficiente a non abbandonarlo mai, ma le cui possibilità di successo, per chi sta alla base della scala sociale, sono quasi nulle.

È una descrizione che si ritrova per esempio, quasi parola per parola, nel bel memoir di Sarah Smarsh Heartland – Al cuore della povertà nel paese più ricco del mondo (edito in Italia da Black Coffee), che pure è una cavalcata per il Novecento, dalla Grande depressione alla crisi economica del 2008, attraverso diverse generazioni, ma la cui quintessenza statunitense non potrebbe sembrare più distante dalla specificità zainichi di Pachinko. Smarsh spiega con esatta lucidità come il Sogno americano sia per i poveri (e dunque, spesso, per gli immigrati) una doppia condanna, che allo stesso tempo scarica sulle loro spalle la responsabilità della propria condizione deresponsabilizzando lo stato, la comunità e le istituzioni, e indebolendo le possibilità di coscienza di classe e solidarietà trasversale. È un filo che si ritrova in Minari, dove Youn Yuh-jung interpreta un personaggio caratterialmente opposto a Sunja, ma per certi versi una possibile versione alternativa della sua storia. Anche in Pachinko i personaggi si confrontano con questa dinamica, esacerbata dall’oppressione colonialista giapponese in Corea, e poi dalla discriminazione sistemica dei coreani in Giappone – e successivamente, nella timeline di Solomon nel 1989, con la letale sovrapposizione tra l’esasperata dedizione al lavoro nipponica e l’idea statunitense di successo yuppie.

«Quasi in ogni famiglia c’è una Sunja» ha detto la showrunner Soo Hugh, che fin nel successo del romanzo (finalista del National Book Award nel 2017) ha rintracciato un’universalità solo apparentemente in contraddizione con l’accuratezza specifica della ricostruzione storico-sociale. L’intelligente scelta d’adattamento portata avanti da Hugh è stata quella di abbandonare la processione cronologica del testo (che comincia nel 1910 e avanza fino al 1989) per incrociare e far dialogare tra loro i diversi periodi storici. Non veri e propri flashback – anche se è la presenza di Sunja, nelle due timeline, a fare da connettore più evidente – quanto piuttosto una rete di relazioni e corrispondenze tra passato e futuro, un rimbalzare tra uno snodo e l’altro della Storia come dentro una macchina del pachinko, rintracciando insieme un intreccio di causalità e conseguenze e un senso di ciclicità, a volte gonfia d’impotenza, altre di speranza. È soprattutto in questa scelta di scrittura che risiedono la forza e il fascino di Pachinko, in questa compresenza temporale sottolineata anche dalla bellissima sigla ambientata nella sala da gioco, in cui tutti gli attori principali, ognuno nel proprio costume d’epoca, ballano con gioia sfrenata mentre i Grass Roots cantano «let’s live for today and don’t worry about tomorrow».

Pachinko (come anche il sopra citato Heartland, o come l’italiana L’amica geniale, di cui ogni tanto emerge qualche eco) è una storia di vite invisibili, soprattutto quella di Sunja e delle molte donne che come lei hanno abbandonato il paese d’origine, attraversato l’oceano, iniziato alla cieca una nuova esistenza in un luogo ostile, di cui non conoscevano neppure la lingua, spesso ritrovandosi a essere, con la sola forza della determinazione, l’àncora di intere famiglie allargate. Pachinko parla il linguaggio del melodramma, incrociando ribaltamenti del destino, scelte tragicamente sbagliate, amori impossibili, gravidanze inopportune, tragiche malattie con fatti della Storia (il penultimo episodio, che cambia significativamente anche formato e costituisce la maggior libertà narrativa che Hugh si è presa rispetto al romanzo, torna ulteriormente indietro nel tempo per mostrare il grande terremoto del Kanto del 1923 e soprattutto la sua pagina più terribile e meno nota: la persecuzione sanguinosa della comunità coreana, additata come capro espiatorio, che ne seguì). L’incalzare è quello dell’epica, ma è un’epica intima, che scioglie i suoi momenti di maggiore commozione dentro oggetti e fatti d’apparenza banale, come una ciotola di riso, un fazzoletto sdrucito, una serata di pioggia improvvisa. Si consuma soprattutto e più di tutto sui volti dei suoi interpreti, in particolare quello della straordinaria Youn Yuh-jung (ma anche l’emergente Kim Min-ha, che incarna Sunja da giovane, è una rivelazione): l’incredibile sensibilità con cui riesce a fermare di tanto in tanto il tempo, facendo scorrere negli occhi e nel silenzio le emozioni e la Storia, è l’anima di uno show che sa essere insieme classico e sorprendente. ALICE CUCCHETTI

Domenica scorsa, 24 aprile, l’immensa Barbra Streisand ha compiuto 80 anni. La omaggiamo riproponendovi il servizio che Film Tv n° 18/2017 le dedicò per il suo 75° compleanno.


Ma papà ti manda sola?

 

Il 31 dicembre 1999 Barbra Streisand si esibiva su un palcoscenico di Las Vegas in Timeless (concerto poi divenuto uno speciale tv e un album live): «Grazie, potevate essere ovunque in questa notte speciale, ma avete scelto me». Bluffava, ovviamente: dove altro si poteva passare l’ultima notte del millennio, se non in adorazione della Diva per eccellenza? E chi altri avrebbe potuto usare lo scoccare del XXI secolo per autocelebrarsi, con uno show che metteva letteralmente in scena la sua gavetta (con tanto di giovane attrice a interpretare la Barbra tredicenne, talentuosa e cocciuta) e la sua folgorante ascesa? Soltanto lei, l’unica e sola. La ragazzina di Brooklyn con la voce da usignolo ma l’ambizione bruciante di diventare attrice, che dai palchi dei gay club newyorkesi approdò a Broadway, soggiogò Hollywood ed è a oggi l’unica artista nella storia ad aver piazzato almeno un album al primo posto della classifica in ogni decennio, per sei decenni consecutivi. 54 anni sono passati dal primo disco, 75 dalla nascita di Barbara Streisand, con una “A” soltanto in più: le avevano proposto un nome d’arte, lei optò per l’autenticità tenendoselo intero al netto di una vocale, così come ha sempre tenuto tutto il resto, dal naso di carattere allo strabismo di Venere, prendere o lasciare. E nessuno si è mai azzardato a lasciarla. Aveva appena vent’anni quando l’America si innamorò di lei, Groucho Marx si dichiarò suo fan e Liberace la volle come spalla in concerto. A raccontare il suo regale ingresso nel cinema, da star fatta e finita, è sufficiente la sua prima battuta in assoluto: «Hello, gorgeous», dice a se stessa nello specchio in Funny Girl («ciao, splendore», nella versione italiana tradotto un po’ arditamente con «ciao, fatale»). Il ruolo di Fanny Brice, già portato in teatro per tre stagioni, le valse subito l’Oscar e le è sempre vestito come un guanto: Fanny, come Barbra, era una donna forte, un’artista coraggiosa, sicura di sé e del suo talento al punto da mettere in discussione le scelte di impresari, registi e colleghi. Un’attitudine per la quale Streisand si è fatta conoscere subito: quando chiesero a William Wyler se era stato difficile lavorare con lei, lui rispose «No, considerato che era la prima volta che dirigeva un film». Era solo l’esordio, ma da allora e sempre, ogni film con Barbra era un film di Barbra, molto prima che la diva decidesse di sedersi dietro la macchina da presa. Geniale autrice della sua immagine, chi meglio di lei poteva vendere se stessa, valorizzare al massimo il prodotto Streisand? I make up artist di Funny Girl si arresero all’evidenza che solo Barbra sapeva truccare Barbra, scolpire quegli angoli unici per trasformare la bellezza non canonica in uno spettacolo di cui lo spettatore non avesse mai abbastanza. Ha sempre saputo quanto valeva, non si è mai accontentata di un centesimo in meno, o di un minuto in meno di visibilità: se la Streisand attrice e cantante è un fenomeno, la Streisand produttrice, autrice e stratega commerciale è una potenza. Per tutti gli anni 70 nella top ten degli attori più remunerativi, con una sfilza di successi e la sua casa di produzione First Artists, poteva permettersi di scegliere cosa girare, con chi e a che prezzo. Nel 1981 chiese 4 milioni di dollari per Tutta una notte, inducendo Gene Hackman a protestare per avere parità di compenso, alla faccia del gender gap; pochi anni dopo, per Pazza, fu pagata 5 milioni, un record per l’epoca. È stata la prima (e l’unica finora) donna a vincere un Golden Globe come migliore regista; è stata fra le prime fiere portatrici di toy boy (Andre Agassi, uno dei tanti amori della diva, aveva 28 anni meno di lei); è da sempre convinta sostenitrice del partito democratico e ha fatto della sua fama un veicolo di progressismo. Nel 1970 lottò (invano) per avere Sidney Poitier, e dunque una coppia interrazziale, in Il gufo e la gattina; nel 1972 interpretò con Voglio la libertà un manifesto di emancipazione femminile; con Come eravamo diede voce ai comunisti vittime della caccia alle streghe e con Yentl firmò il suo definitivo inno al femminismo. Era il 1983 e Barbra era la prima donna nella storia a scrivere, dirigere, produrre e interpretare un film per una major: nessuna diva a Hollywood prima di lei (e, purtroppo, nessuna dopo) ha saputo capitalizzare il suo seguito convertendolo in autonomia artistica totale. Al limite del dispotismo, dice la vulgata: Kris Kristofferson sostenne che lavorare con lei gli aveva fatto «passare per sempre la voglia di cinema», Walter Matthau la detestò al punto da rifiutarsi di baciarla nel finale di Hello, Dolly! (rivedetelo: il bacio è il frutto di un sapiente angolo di ripresa). Leggenda? Ego ipertrofico? Ira dello showbusiness, campo da gioco dei maschietti, per il successo di una donna indipendente? La certezza è che lei può beatamente non curarsene. Francesca Cacace, alias La tata, sfegatata fan della Streisand, davanti alla domanda «se tua madre e Barbra stessero affogando, e potessi salvarne una sola, chi salveresti?» rispondeva «Mia madre. Barbra può camminare sull’acqua». E viene da crederci.

ILARIA FEOLE

 
  • In occasione del 25 aprile, il progetto Mis(s)conosciute – Scrittrici tra parentesi, dedicato alla riscoperta di scrittrici italiane e internazionali, ha realizzato una doppia puntata del suo podcast intitolata Staffetta partigiana, sulle donne nella Resistenza. Su YouTube è possibile vedere gratuitamente La donna nella Resistenza, documentario realizzato nel 1965 da Liliana Cavani.
     
  • Sulla piattaforma streaming Another Screen, la rivista di cinema femminista Another Gaze ha organizzato una nuova rassegna cinematografica gratuita: s’intitola Mulheres: Uma outra história e raccoglie sei documentari, corredati di interviste alle autrici, di cineaste brasiliane su donne e lavoro. Online fino al 24 maggio [in inglese e portoghese]
     
  • Si è aperto ieri sera e prosegue fino al 1° maggio al Cinema Massimo e al Museo del cinema di Torino il 37° Lovers Film Festival, il più antico festival italiano dedicato al cinema LGBTQ+. In gara oltre 60 titoli tra lunghi, corti e doc. Sempre sul fronte news da festival: Jasmine Trinca si aggiunge alla giuria del prossimo Cannes e contemporaneamente debutta alla regia, proprio in Croisette, presentando il suo Marcel! nella sezione Séances spéciales.
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