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Singolare, femminile
lo schermo delle donne

- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole - 
#051 - C’era una volta a… Dollywood

Ciao <<Nome>>,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.

 

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Un apologo femminista, una canzone anticapitalista, un indiscutibile cult movie, un vaccino anti-COVID-19, Buffy l’ammazzavampiri: sono solo alcuni dei contributi che Dolly Parton ha regalato all’umanità. Reclamando un’immagine d’iper femminilità, parlando delle e alle donne povere d’America, trovando una delicata universalità.

Dolly Parton sa suonare – e spesso durante i suoi concerti effettivamente suona – la chitarra, il banjo, il pianoforte, il violino, l’armonica, il sassofono, l’autoharp e il dulcimer. Ma in 9 to 5, il brano composto per il suo esordio al cinema Dalle 9 alle 5... orario continuato e diventato una delle hit più travolgenti della sua già inarrivabile carriera, suona anche un’altra cosa, del tutto inaspettata: le proprie unghie. Il ritmo incalzante e irresistibile su cui s’appoggia la melodia è dato infatti dallo sfregamento a tempo delle sue lunghe unghie laccate (che sono infatti accreditate ufficialmente tra gli strumenti del disco), un’idea ispiratale dall’osservazione delle molte donne presenti sul set e dal tema del film: si parla di segretarie, e il rumore delle dita che ticchettano sulle macchine da scrivere le è sembrato, subito, una colonna sonora perfetta.

È un aneddoto abbastanza noto, e anche uno di quelli in grado di incapsulare l’essenza di Dolly Parton, un’essenza implicitamente politica nonostante l’“apoliticità” sia da sempre una delle caratteristiche irremovibili della star, che a differenza della maggioranza dei suoi colleghi non si è mai schierata apertamente per nessun partito o candidato/a, e che inevitabilmente, per questo, è incorsa spesso in accuse e insulti, da ambo le parti (solo una parte, però, le ha inviato minacce di morte: l’estrema destra, quando ha firmato la canzone Travelin’ Thru per il film Transamerica). Parton è una figura dall’estetica precisamente connotata ed esagerata, «un cartone animato», come lei stessa si è a volte definita («per questo piaccio tanto ai bambini!»), un emblema di iper femminilità: i capelli biondissimi e cotonatissimi; i tacchi vertiginosi e gli abiti ricoperti di strass e paillettes; il trucco marcato, le labbra scarlatte e le ciglia folte e infinite, le unghie – appunto – lunghe, curate e pittate; e, naturalmente, il seno prosperoso, ormai parte dell’immaginario popolare a tal punto che gli scienziati che clonarono la prima pecora dalla cellula di una ghiandola mammaria decisero di chiamarla, per questo, proprio Dolly.

Si chiama Dolly, che vuol dire “bambola”. Ha un aspetto sgargiante ed eccessivo, automaticamente considerato “poco serio” e “frivolo”. Suona principalmente una musica, il country, che non può definirsi “di nicchia” (è uno dei generi più ascoltati negli Stati Uniti, e non solo) ma che si muove in un mondo per molti versi parallelo e impermeabile al mainstream, anche apertamente disprezzato da molti. Soprattutto, nonostante sia miliardaria, una delle artiste più pagate e una delle imprenditrici più di successo d’America, Parton non rinnega mai, anzi illumina con pervicacia, la sua provenienza working class, il suo status originario di donna povera, cresciuta in una capanna di una sola stanza insieme ad altri 11 fratelli: con le sue canzoni, naturalmente (e il country, il genere dello storytelling per eccellenza, si presta perfettamente), ma prima ancora con il suo modo di parlare (e di cantare), che non ha mai voluto perdere l’accento calcato del Tennessee e le consuetudini verbali degli Appalachi. E, naturalmente, con il suo aspetto, che indossa con fierezza l’identità insultante di “white trash”, rispedendo l’insulto degradante al mittente. «Costa un sacco apparire così “da quattro soldi”» è la sua battuta ricorrente, che rivela però l’intenzionalità dietro il look, la volontà esibita di incarnare un tipo di donna spesso deriso, maltrattato o insultato (oggi diremmo “vittima di slut shaming”).

Come nota la giornalista Sarah Smarsh nel bel volume di saggi Una forza della natura – Dolly Parton e le donne delle sue canzoni (edito in Italia da Black Coffee), questa femminilità esibita è spesso per le donne povere una – più o meno consapevole – forma di resistenza: a uno sfruttamento usurante del corpo attraverso il lavoro, a una mancanza di mezzi che incide drammaticamente sulla cura della persona e sulla salute, a un contesto omologante, alienante e di sfiancante fatica quotidiana. Curarsi le mani e i capelli, truccarsi, comprarsi un abito luccicante sembrano frivolezze solo a chi le ha sempre potute dare per scontate (e alla maggior parte degli uomini, è chiaro). Ed è così che, allo stesso modo in cui rende le unghie smaltate un’efficacissima base sonora, Dolly Parton trasforma coscientemente l’osservazione della realtà in cui è cresciuta e che l’ha formata in performance sfolgorante, unificando tra l’altro in un inaspettato riconoscimento le lavoratrici invisibili degli stati Usa più conservatori e la comunità queer che da sempre si rispecchia nella sua scintillante teatralità. Come ogni vera icona d’America, Parton è un potente nodo di contraddizioni: è molto religiosa e amatissima da un pubblico credente e tradizionalista, ma ha campeggiato, vestita da coniglietta, sulla copertina di “Playboy” (a cui ha concesso anche una delle prime dettagliate interviste di carriera); si è sposata a vent’anni con un uomo del tutto estraneo allo showbusiness e non si hanno da allora notizie di flirt o relazioni extraconiugali, ma non si esime, ancora oggi che ha 76 anni, da dichiarazioni libertine e apprezzamenti all’altro sesso, e più di una volta in carriera ha interpretato ruoli di lavoratrice sessuale – per esempio in uno dei suoi film più di successo, Il più bel casino del Texas con Burt Reynolds, ma anche nel recente tv movie A Christmas of Many Colors, ispirato alla sua giovinezza povera nelle Smokey Mountains. Possiede un celebre parco a tema, Dollywood, e una catena di ristoranti con spettacolo (a cui è stato tolto solo di recente il problematico appellativo “Dixie” dal nome) che celebrano i “bei tempi andati” tanto vagheggiati da trumpiani & Co., ma ha vinto un Oscar come produttrice del doc Common Threads – Stories from the Quilt, sulle drammatiche sofferenze causate dall’epidemia di AIDS, e un’altra nomination l’ha ricevuta per, appunto, la canzone scritta per Transamerica, un film sui diritti delle persone trans. I testi delle sue canzoni aderiscono ai tradizionali canoni del country – storie d’amore finite male, vicende di povertà, d’abbandono e di fuga – ma c’è quasi sempre una scintilla di sovversione, un ribaltamento inatteso, uno scatto emancipatorio: ci sono casi espliciti come Just Because I’m a Woman, ma anche la stessa Jolene, probabilmente il suo maggior successo in assoluto insieme a I Will Always Love You, suona quasi più come un atto d’ammirazione per un’altra donna che come una storia di competizione tra donne per un uomo. E così via.

Non si è mai esposta politicamente, Dolly Parton, non si definisce femminista (a domanda diretta risponde con il classico «penso che tutti si meritino lo stesso rispetto»), ma sceglie di esordire sul grande schermo con una commedia voluta e prodotta da Jane Fonda (che nel 1980 è ancora per mezza America “Hanoi Jane”, la traditrice della patria che è andata a dar sostegno ai Vietcong, e che si spende senza sosta nelle battaglie per i diritti civili, per l’aborto, per l’Equal Rights Amendment), interpretata insieme a Lily Tomlin (una comedian apertamente di sinistra, e che, pur senza fare pubblicamente coming out, non ha mai nascosto la propria omosessualità) e incentrata sulle molestie quotidianamente subite dalle donne sul posto di lavoro (era il 1980, ci piace ribadirlo, anche un po’ in risposta a tutti quelli che, post #MeToo, amano chiedersi «com’è che non avete denunciato prima?». Ehm).

Il testo di 9 to 5, a leggerlo con attenzione, non sfigura come inno anticapitalista: «Dalle 9 alle 5, che modo di guadagnarsi da vivere!/Farcela a malapena, ti prendono tutto e non ti danno niente/Sfruttano la tua mente e non ti rendono merito/Ce n’è abbastanza per andare fuori di testa!/ Dalle 9 alle 5, sì, ti hanno piazzato proprio dove ti volevano/Esiste una vita migliore, però, e ci pensi sempre, non è vero?/Questo è un sistema a favore dei ricchi, non importa quel che vogliono farti credere/E tu passi tutta la vita a metter soldi nei loro portafogli!». Nell’altro grande successo critico interpretato da Parton, il cult movie Fiori d’acciaio, l’artista indossa ancora un ruolo working class; di più, impersona una versione alternativa di sé: come ha spesso avuto modo di notare, se non avesse sfondato nella musica, avrebbe con molta probabilità fatto proprio l’estetista e/o la parrucchiera, ricollegandosi a quel discorso sulla cura di sé che facevamo poco sopra – anche i diversi, e mai nascosti, interventi chirurgici cui si è sottoposta negli anni, li ha sempre rivendicati come forme di autoaffermazione e non come una sottomissione ai diktat estetici hollywoodiani.

Da poche settimane, Dolly Parton è ricomparsa in tv, nell’ultima stagione di Grace and Frankie, ricostituendo il mitico trio di Dalle 9 alle 5 insieme alle protagoniste della serie Jane Fonda e Lily Tomlin. E proprio in questi giorni viene inserita nella Rock’n’roll Hall of Fame, un onore che qualche mese fa aveva addirittura pubblicamente declinato, perché convinta che fosse riservato solo a musicisti rock, cosa che lei non è mai stata: «Non vorrei togliere il posto ad artisti più meritevoli» ha dichiarato nel (abbastanza stupefacente) comunicato stampa, aggiungendo poi che, a pensarci bene, la faccenda le aveva fatto venir voglia di provare a incidere un disco rock (si è già cimentata nel bluegrass, nel pop e perfino nell’hip hop). A marzo ha pubblicato un libro, Run, Rose, Run, scritto insieme all’autore di bestseller James Patterson, e l’ha accompagnato con un album ad hoc: un film è già in lavorazione. Ricordate il meme-tormentone di qualche anno fa che sfidava a realizzare un’ironica composizione di quattro foto profilo, per LinkedIn, Facebook, Instagram e Tinder? Hanno partecipato milioni di utenti online, dalle celebrity alle persone comuni: si chiama “Dolly Parton challenge” perché l’ha lanciato lei. Se vi siete immunizzati contro il COVID-19 con almeno una dose di vaccino Moderna, sappiate che dovreste ringraziare anche Parton: ha donato un milione di dollari alla ricerca, nelle sue prime cruciali fasi, accelerando così la sperimentazione. E ha poi modificato la sua hit Jolene per la campagna vaccinale: «Vaccine, vaccine, vaccine, vaccine!/I’m begging of you, please don’t hesitate./Vaccine, vaccine, vaccine, vaccine/because once you’re dead, then that’s a bit too late».

Se siete, come chi scrive, dei grandi fan di Buffy l’ammazzavampiri, beh, la serie è stata co-prodotta dalla compagnia Sandollar di Parton, che ci ha consegnato un’eroina irrinunciabile e ha cambiato per sempre la tv.

Quella di Dolly Parton è la più classica delle mitologie americane, quella della bimba precoce che canta in chiesa fin da piccola e scrive canzoni – professionalmente! – già a dieci anni, e che a 18, il giorno dopo il diploma, sale da sola su un bus per Nashville, decisa a raggiungere il successo. È la storia, macchiata di inevitabile eccezionalismo a stelle e strisce, di qualcuno che ha già perfettamente in mente gli obiettivi da raggiungere, e che non esita per questo a fare scommesse sul momento giudicate folli e che alla lunga si riveleranno lungimiranti. Basta anche solo seguire il filo di I Will Always Love You per averne un esempio: canzone scritta per “addolcire” l’addio a Porter Wagoner, potente musicista country che le aveva garantito la prima notorietà ospitandola nel suo programma tv ma che era anche oppressivo e maniaco del controllo, e che Parton decide di abbandonare all’apice della gloria per seguire la carriera solista; brano che vorrebbe subito re-incidere Elvis Presley, ma pretendendo anche metà dei diritti, proposta a cui Parton dice no, a malincuore, tra le lacrime, perché la canzone è sua e solo sua; hit che, rifatta da Whitney Houston per la colonna sonora di Guardia del corpo, diventa uno dei maggiori successi musicali della Storia, e che continua anno dopo anno a portare a Parton milioni di dollari in royalties.

Non si è mai schierata politicamente, probabilmente non lo farà mai, e cosa pensi davvero non ci è dato sapere. Ma è nei fatti, nelle scelte, nella biografia, nel percorso insieme canonico e rivoluzionario, che Parton diventa una figura “politica” – nella filantropia generosa, per esempio, che va sempre un passo oltre la “semplice” beneficenza: il suo Dollywood è parte cruciale dell’economia del natio Tennessee, a ogni dipendente sono offerte borse di studio e aiuti monetari, da decenni è attivo un programma che ogni mese fornisce gratuitamente libri ai bambini dello stato che ne facciano richiesta, la fondazione di Parton eroga regolarmente aiuti alle famiglie poco abbienti degli Appalachi, etc. Come si è detto, nell’aspetto che decide di adottare e rivendicare con orgoglio, incarnando la sua prima hit, Dumb Blonde (paradossalmente una delle pochissime non scritte da lei, che ha firmato a oggi più di 3.000 canzoni): «Just because I’m blonde don’t think I’m dumb, ‘cause this dumb blonde is nobody’s fool». E anche nel suo tessere tra loro, come un cappotto di mille colori, le contraddizioni più fertili dell’America: e forse è proprio qui, ben più che nella sua presunta “apoliticità”, che risiede la sua forza trasversale, unificante, multiforme, collettiva. ALICE CUCCHETTI

Fiori d’acciaio di Herbert Ross, in cui Dolly Parton interpreta l’estetista e parrucchiera Truvy Jones, nel cui salone di bellezza si ritrovano le protagoniste interpretate dalle splendide Sally Field, Julia Roberts, Shirley MacLaine, Olympia Dukakis e Daryl Hannah, è uno dei nostri cult del cuore. E infatti vi riproponiamo proprio il cult scritto da Ilaria Feole e pubblicato su Film Tv n° 15/2013.


Fiori d'acciaio

 

M‘Lynn è in ansia per la figlia Shelby, che è incinta nonostante il parere contrario dei medici. Shelby infatti è diabetica. La consolano, nel salone di bellezza dove si confida, tra una messa in piega e una ceretta, le amiche: Ouiser, una litigiosa signora con due mariti alle spalle, Clairee e Annelle, che sta fuggendo da un matrimonio infelice. Il bambino nasce sano, ma Shelby peggiora e, nonostante il trapianto di un rene fornito da M’Lynn. Forse solo Love Story e Come eravamo (e alcune specie di cipolla) possono concorrere con questo film per ettolitri di lacrime versate dagli spettatori. Impareggiabile macchina da commozione, Fiori d’acciaio è in realtà una commedia dai tempi perfetti, in cui la gara di bravura fra le interpreti è sapida e trascinante come un ballo campagnolo del profondo Sud degli States. Julia Roberts, alla prima nomination all’Oscar, è un fiore spezzato; a non piegarsi mai è la strepitosa Sally Field, mamma d’acciaio che raggiunge nella sequenza del funerale vette di catarsi struggenti. I duetti di Olimpia Dukakis e Shirley MacLaine sono la ciliegina sulla torta. Herbert Ross dirige con sguardo complice il suo stuolo di donne, con la rassegnata ammirazione di chi ha capito che il sesso debole, forse, è il suo. Gli uomini? Sono in disparte (Boys on the Side, recita il titolo originale di un altro bel film di Ross); per loro la ceretta resta un mistero, tanto quanto la splendida, irriducibile complessità delle proprie ragazze.

ILARIA FEOLE

 
  • Oltre al sopra citato libro Una forza della natura, se volete approfondire la figura di Dolly Parton potete ascoltare la puntata dedicatale dal podcast Pop Corn [in italiano] o la miniserie podcast Dolly Parton’s America [in inglese]. Su Netflix, oltre al film Natale in città con Dolly Parton e la serie Dolly Parton – Le corde del cuore, da lei prodotti, c’è il documentario Dolly Parton – Here I Am.
     
  • In seguito all’anticipazione della bozza secondo cui la corte suprema degli Stati Uniti si preparerebbe a rovesciare la storica sentenza Roe v Wade che da cinquant’anni legalizza l’interruzione di gravidanza, lo scorso weekend sono state organizzate diverse proteste per il diritto delle donne ad abortire. Margaret Atwood ha pubblicato sull’“Atlantic” un articolo in cui sottolinea la vicinanza tra la distopia da lei immaginata nel 1985 in Il racconto dell’ancella e la direzione verso cui le sembra si stia dirigendo la giurisprudenza Usa. In Italia, nel frattempo, abortire è sempre più difficile.
     
  • L’osservatorio europeo sull’audiovisivo ha pubblicato un rapporto sulla disuguaglianza di genere nell’industria, che ha analizzato oltre 37 mila titoli prodotti tra il 2015 e il 2021: se alcune categorie professionali, come quelle delle sceneggiatrici e delle produttrici vedono un incremento di presenza femminile, la rappresentanza è ancora drammaticamente scarsa in quasi tutte le altre, soprattutto alla direzione della fotografia e alle musiche. I dati si possono leggere qui.
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