Copy

Ciao!
Questa Newsletter si chiama Trame Disperse e io sono Emanuela.


PERCHÉ TRAME DISPERSE?

Mi pongo troppe domande e, spesso, non trovo risposte che mi soddisfino. Scrivere mi aiuta a vedere le cose con disatcco e a ragionare meglio.
Pertanto, in questa Newsletter troverai perlopiù pensieri sparsi legati al momento.
Trame che rimangono sospese e si disperdono così come sono arrivate.

 
Se sei curioso di sapere di cosa abbiamo parlato nelle trame precedenti, puoi leggerle qui

Se preferisci,puoi leggere questa mail nel browser

Questa, invece, è TRAME IN RETE.

Cos’è Trame in rete?

Mi capita a volte di trovare in rete delle riflessioni fatte da altri che diventano riflessioni anche per me.
E allora perché non condividerle per creare altre riflessioni?
 

Trame in rete arriva nel mezzo del mese, ma non sarà fissa. Qualche volta ci sarà, qualche volta no, ma va bene lo stesso, no?

DISCLAIMER: oggi sono qui dopo 15 giorni da Trame disperse, ma non sarà la regola.
Non amo le imposizioni o le regole rigide, pertanto non sarà una regola nemmeno questa.
Ci sarò quando avrò qualcosa di buono da dire, altrimenti che senso avrebbe?

Ciao, <<Nome>>

Questa volta ce l'ho fatta ad esserci in mezzo al mese, perché proprio qualche giorno fa una scrittrice conosciuta ha scritto questo post sul suo profilo Facebook, che in realta non era un semplice post ma un articolo uscito il giorno prima su 7Corriere - il settimanale di approfondimento del Corriere della Sera -, che mi ha fatto riflettere.
 
Riporto di seguito il testo:

Paolo Sorrentino è uno dei miei registi preferiti, considero È stata la mano di Dio un capolavoro, il suo film più bello girato dopo Le conseguenze dell’amore e il più entusiasmante visto l’anno scorso. Ma la scena in cui Capuano dice a Fabietto «non ti disunire», diventata un tormentone, a me è piaciuta meno.
Ciò non ha impedito che stamattina mi svegliassi pensandoci. Che significa «non ti disunire»? Il vero Antonio Capuano, regista napoletano cui Sorrentino ha reso omaggio, racconta che usavano quella frase nelle partite di calcio, per dire: non pensare a te stesso, senti lo spirito di squadra. Ma anche: concentrati.
Guardando la pellicola ho creduto che il personaggio di Capuano mettesse Fabietto in guardia contro la minaccia della dissociazione, della frammentazione di sé, e in questo senso il suo mi è parso un consiglio impraticabile. Non a caso Fabietto se ne va, lascia Napoli, l’appartenenza, lo spirito di squadra – si disunisce. D’altronde la vita l’ha già disunito: uccidendo i suoi genitori quando lui è ancora un ragazzo, strappandolo all’unità del nido, l’origine stessa dell’illusione che un ordine nel mondo sia possibile, l’imprinting della nostra identità.

Io sono disunita non solo perché ho abbandonato tre città diverse, e ho continuato a essere, per chi è rimasto, quella che aveva conosciuto in un’epoca ormai finita: un ricordo, un rimpianto, un tradimento, qualcosa di inafferrabile. Sono disunita perché faccio due mestieri opposti, uno da protagonista, l’altro dietro le quinte, e oscillo senza tregua tra il bisogno di esplorazione e quello di tana, come tutti, e sono immersa nel mondo ma soprattutto sono altrove, nel luogo della dissociazione per eccellenza, la scrittura, dove la mente ha imparato a rifugiarsi per sottrarsi alla realtà, o per ampliarla, inventarla, per averne l’unica forma di controllo concessa.
Per mesi una terapeuta mi ha parlato del «vero sé» e io non la capivo. Cosa sarebbe questo nucleo indivisibile in vigore con tutti e in ogni frangente? Forse ho letto troppo presto Pirandello, ma sono convinta che mi sarei sentita come Vitangelo Moscarda anche senza averlo incontrato.
Non c’è modo di sopravvivere se non disunirsi, non ci si può opporre alla frammentazione: forse vale sempre, per chiunque, di sicuro vale quando un dolore precoce spacca la tua vita. Ho deciso che non voglio cercare il (mio) vero sé come fosse un sacro Graal. La maggioranza delle persone non desidera arrivare al punto estremo della conoscenza, neanche esistesse una verità unica e immutabile: «Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire», dice Moscarda. La maggioranza delle persone tenta semplicemente di salvarsi – come me.
 
(Ieri su 7Corriere Corriere della Sera)



Tendenzialmente mi trovo d’accordo con le cose che dice e scrive, ma questa volta non lo sono affatto e la sua riflessione è diventata uno spunto per mettere nero su bianco il mio punto di vista.
 
La propensione a disunirsi, che la Postorino fa sua, è, a mio avviso, il dilemma più grande di questo tempo in cui – apparentemente – è come se fossimo tutti costretti ad attuare una sorta di disconnessione da noi stessi per poter sbarcare il lunario e provare a sopravvivere.
 
Secondo il suo punto di vista, vivere è tentare di salvarsi, e salvarsi vuol dire assecondare quella frammentazione a cui questa società liquida, per dirlo alla Bauman, ci impone. Si può tentare di salvarsi, secondo lei, soltanto frammentando il proprio sé, senza nemmeno provarci a cercarne le tracce disperse e metterne insieme i cocci, rimanendo in balia del nulla, brancolando nel buio, andando a tentoni, facendosi trasportare da quello che la massa ci impone e, soprattutto, facendoselo bastare.

Tentare di salvarsi senza disunirsi, invece, per me rappresenta la vera salvezza: una salvezza autentica, contrapposta al disgregare il proprio sé per necessità, per convenienza, per pigrizia o per il bisogno di rimanere su più livelli di sopravvivenza. E una salvezza non autentica, in definitiva, non è più salvezza, ma perdizione, perversione morale. È una vita senza etica, che è, poi, ciò che ci sta portando alla deriva.
 
Perché non ti salvi se non ci provi nemmeno a mettere insieme quei cocci. Perché anche se sembra che quei frammenti vadano ognuno per conto proprio, in realtà trovano sempre un punto che li unisce e quello è l’unico che può tenerli insieme davvero per tentare di non vagare all’infinito senza trovare una meta.
 
Sono convinta che molto di quello che di brutto accade in questo tempo così svuotato di valori e di speranza, derivi proprio dalla facilità con cui ci si disunisce, ci si allontana da sé stessi, si tende a inseguire appigli senza (in)seguire una direzione, vagando come fossimo costantemente scollegati da noi stessi.
 
Una vita senza un obiettivo è una vita che non ha coerenza e una vita senza coerenza diventa pericolosa e piena di insidie, perché, anche senza prevederlo, diventiamo disposti a tutto con il rischio di caderci dentro, in quel tutto che diventa niente, senza nemmeno esserne coscienti.
 
Una vita senza coerenza è una vita assente, abulica, apatica. Vuota.
 
Ecco perché io, invece, quella esortazione di Antonio Capuano l’ho sentita mia e l’ho amata molto:  perché mi rispecchia e rispecchia il mio sentire, il mio agire, il mio essere perennemente in crisi e, soprattutto, il mio continuo disagio verso  le cose del mondo.
È una esortazione che mi vede talmente d’accordo che quasi mi pare sia diventata la mia ossessione, il mio tormento: provare a non disunirmi in un mondo di zombie che vagano, indolenti, nel tentativo di accaparrarsi tutto e subito, per sopravvivere: non conta se sia solo per 5 minuti o per mezz’ora o per due ore o per una vita intera.
Qui, se vuoi, puoi leggere la mia recensione al film

Grazie per avermi letta fin qui.
Se questa mia breve riflessione è stata di ispirazione per te, puoi dirmi la tua rispondendo a questa e-mail.
Altrimenti, ci sentiamo alla prossima!

Un abbraccio
Manu 
Facebook
Link
Website
Email
LinkedIn
Copyright © 2022 Trame Disperse, All rights reserved.