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16 giugno 2021

Mediorientale

La newsletter sul Medio Oriente a cura di Francesca Gnetti

Il nuovo governo israeliano alla prova “Ho già ucciso un sacco di arabi nella mia vita: non è un problema”. “Non permetterò ai terroristi di attraversare il confine di Gaza ogni giorno, e se lo fanno spareremo per uccidere”. “Non sono bambini: sono terroristi. Chi vogliamo prendere in giro?”. “Quando ancora voi arabi vi arrampicavate sugli alberi, qui c’era già uno stato ebraico”. Ecco alcune frasi pronunciate negli ultimi anni da Naftali Bennett, primo ministro israeliano dal 13 giugno. Ha sostituito Benjamin Netanyahu, al potere da dodici anni, alla testa di una coalizione composta da otto partiti – due di sinistra, due di centro, tre di destra e uno arabo – che ha ottenuto la fiducia della knesset, il parlamento israeliano, con 60 voti favorevoli e 59 contrari.

Il nuovo governo è stato subito messo alla prova il 15 giugno, quando a Gerusalemme è stata organizzata una marcia dell’estrema destra israeliana, che inizialmente era stata cancellata per evitare di riaccendere le tensioni. E ha fatto capire quali sono le sue intenzioni. I militanti ultranazionalisti, che celebravano l’anniversario dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est, sono passati attraverso i quartieri arabi della città vecchia e le forze di difesa israeliane hanno arrestato almeno diciassette palestinesi che protestavano contro la manifestazione e ne hanno feriti altri 33. In segno di protesta dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati dei palloni incendiari che hanno provocato una quindicina di incendi nel sud d’Israele. E l’aviazione israeliana ha risposto conducendo una serie di raid nella notte contro obiettivi di Hamas nella Striscia, violando il cessate il fuoco in vigore dal 21 maggio dopo undici giorni di bombardamenti che avevano provocato la morte di 260 palestinesi e 13 israeliani.

Un nuovo scontro ora, però, non conviene a nessuno, commenta Haaretz. Non a caso da Gaza sono stati lanciati palloni incendiari e non razzi. Bennett, da parte sua, “non può permettersi di mostrare moderazione nei confronti della violenza di Hamas mentre Netanyahu, ora il leader dell’opposizione, lo attacca da destra. Così l’esercito dovrà raccomandare una risposta abbastanza forte da essere adeguata, ma non così forte da scatenare nuovi combattimenti”.

La tensione resta alta anche in Cisgiordania, dove il 10 giugno le forze speciali israeliane hanno ucciso tre palestinesi durante un’operazione a Jenin. Il giorno dopo Mohammad Said Hamayel, 15 anni, è stato ucciso in uno scontro con le truppe israeliane vicino Beita, a sud di Nablus, durante una protesta contro l’espansione di un vicino insediamento israeliano illegale sulle terre del villaggio. Le forze israeliane hanno attaccato anche i manifestanti che si erano riuniti il 10 giugno davanti al tribunale incaricato di esprimersi sull’espulsione di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. Alla fine l’udienza è stata rinviata al 7 agosto.

Gerusalemme, 14 giugno 2021 (Emmanuel Dunand, Afp)

Ritratto e obiettivi Naftali Bennett, 49 anni, è un ex imprenditore di successo dell’alta tecnologia e guida la coalizione elettorale di estrema destra Yamina. Ultranazionalista, ex capo del Consiglio di Yesha, l’organizzazione politica che rappresenta i coloni israeliani, tiene attaccata alla nuca la kippah, il copricapo degli ebrei ortodossi, con il nastro biadesivo e si oppone alla formazione di uno stato palestinese, mentre è favorevole all’annessione totale della Cisgiordania da parte di Israele. Il suo partito ha solo sei seggi in parlamento, ma Bennett “sarà ricordato come la persona che ha messo fine all’era Netanyahu e ha contribuito a portare la stabilità politica”, scrive Anshel Pfeffer in un lungo ritratto su Haaretz.

In base all’accordo raggiunto tra Yamina e il partito di centro Yesh atid, Bennett sarà primo ministro fino al 2023 e poi sarà sostituito da Yair Lapid, l’ex leader dell’opposizione e il vero artefice della coalizione. Il nuovo governo si cimenterà soprattutto con le grandi priorità nazionali, sottolinea Stéphanie Khouri su L’Orient-Le Jour: rimettere in sesto l’economia e il tessuto sociale “dopo dodici anni di regno di Netanyahu e una pandemia che hanno lasciato il paese indebolito, scisso e diviso”; ristabilire la separazione dei poteri e la fiducia nel sistema giudiziario dopo gli attacchi di Netanyahu, sotto processo per corruzione; ripristinare l’onore della classe dirigente e dei politici, intaccata da scandali e da anni di instabilità. Ma per quanto riguarda la questione palestinese, nessuno si aspetta grandi cambiamenti ed è molto probabile che il nuovo governo mantenga uno status quo segnato dall’espansione degli insediamenti nella Cisgiordania occupata, dalle espulsioni dei palestinesi a Gerusalemme, dalle demolizioni delle loro case, da leggi discriminatorie che creano una situazione di apartheid e dal blocco della Striscia di Gaza.

Ecco alcune segnalazioni:

Attualità

Iran Si è svolto il 12 giugno il terzo e ultimo dibattito televisivo tra i sette candidati alla presidenza che si sfideranno per succedere al riformatore Hassan Rohani il 18 giugno. I sette uomini – cinque ultraconservatori e due riformatori – si sono scontrati soprattutto sui temi dell’accordo sul nucleare del 2015 con le potenze mondiali e delle sanzioni statunitensi. Il favorito è considerato il capo dell’autorità giudiziaria, l’ultraconservatore Ebrahim Raisi. Lo stesso giorno del dibattito si è aperto a Vienna il sesto round di negoziati per ripristinare l’accordo sul nucleare, con Stati Uniti e Iran che continuano a rifiutare d’incontrarsi direttamente.

Siria Almeno 18 persone, tra cui 14 civili, sono state uccise nei bombardamenti del 12 giugno ad Afrin, una città del nord della Siria sotto il controllo dei ribelli filoturchi. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, le bombe hanno colpito diverse aree della città e l’ospedale Al Shifaa, dove sono morte tre persone dello staff, due donne, due bambini e un comandante dei ribelli. L’osservatorio ha fatto sapere che l’attacco è partito dalla provincia settentrionale di Aleppo “dove sono schierate le milizie fedeli all’Iran e al regime siriano, vicino alle zone controllate dalle forze curde”. In un comunicato le Forze democratiche siriane, la principale coalizione guidata dai curdi, ha negato il suo coinvolgimento.

Iraq Le autorità irachene hanno annunciato il 13 giugno di aver spostato i resti di 123 persone uccise dal gruppo Stato islamico (Is) vicino Mosul nel 2014. Saranno raccolti campioni di dna e confrontati con quelli di possibili parenti nel tentativo d’identificare i cadaveri. Si tratta di alcune delle seicento vittime di uno dei peggiori massacri commessi dal gruppo jihadista durante l’offensiva per occupare un terzo dell’Iraq. Nel giugno del 2014 i jihadisti attaccarono il carcere di Badush, liberando i detenuti sunniti e caricando sui camion 583 prigionieri prevalentemente sciiti, che furono uccisi e gettati in un burrone. I loro resti sono stati scoperti nel 2017. Secondo l’Onu finora in Iraq sono state ritrovate più di duecento fosse comuni, contenenti i resti di 12mila persone.

Il Monumento bianco a Tell Banat, in Siria (University of Toronto)

Archeologia Un tumulo alto 22 metri e dal diametro di cento metri, situato nel nord della Siria, potrebbe essere il più antico memoriale di guerra mai scoperto al mondo. Lo suggerisce uno studio pubblicato il 28 maggio sulla rivista Antiquity, dedicata all’archeologia. Il sito, noto come Monumento bianco, si trova nei pressi della città di Tell Banat, nella provincia di Aleppo, non lontano dal confine con la Turchia. Finora si pensava che si trattasse di una fossa comune per combattenti nemici. Ma secondo lo studio, guidato dalla professoressa Anne Porter dell’università di Toronto, in Canada, è un memoriale per i morti in battaglia della comunità, risalente al terzo millennio avanti Cristo. Nel nord e nel centro della Siria ci sono altri siti simili, che potrebbero essere oggetto di nuove ricerche archeologiche. Lo studio si è basato sull’analisi di alcuni scavi condotti negli anni ottanta e novanta, prima che il sito fosse sommerso nel 1999 in seguito alla costruzione di una diga sul fiume Eufrate.

Arabia Saudita Le donne sono autorizzate a partecipare all’hajj, il pellegrinaggio annuale alla Mecca, senza bisogno di essere accompagnate da un guardiano maschio. Ma dovranno comunque viaggiare insieme ad altre donne, ha precisato il 13 giugno il ministero dell’hajj e dell’umrah. È l’ultima di una serie di misure finalizzate a garantire una maggiore autonomia alle donne nel regno ultraconservatore, che però sono considerate come puramente di facciata da molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani. L’8 giugno una modifica giuridica ha consentito alle donne single, divorziate o vedove di vivere da sole senza il permesso del padre né di un guardiano.

Bahrein Centinaia di persone hanno partecipato a una rara protesta la sera del 9 giugno per denunciare la morte di un prigioniero politico, avvenuta il giorno prima a causa del covid-19. Husain Barakat, 48 anni, era stato condannato all’ergastolo nel 2018 insieme ad altre 53 persone, con l’accusa di appartenere a una cellula terroristica. I manifestanti hanno rimproverato alle autorità di disinteressarsi della situazione sanitaria nelle carceri, dove il covid-19 sta dilagando. Da metà maggio si è registrato un aumento dei contagi in tutto il regno, con picchi di tremila nuovi casi al giorno.

Yemen Alcuni pescatori hanno trovato i corpi di venticinque migranti nel tratto di mare tra lo stretto di Bab al Mandeb e Gibuti il 14 giugno. Secondo le ricostruzioni erano a bordo di un’imbarcazione che trasportava tra le 160 e le duecento persone, naufragata due giorni prima nella regione di Lahij, nel sud dello Yemen, una zona molto pericolosa dove negli ultimi mesi sono morte decine di persone. Nonostante la guerra che devasta lo Yemen da anni, molti migranti s’imbarcano comunque dal Corno d’Africa per raggiungere il paese, sperando poi di arrivare nei ricchi stati del Golfo.

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Attivismi

Andiamo a piantare
C’è fermento in Iraq. Da quando nell’ottobre del 2019 è cominciata la mobilitazione contro la corruzione e l’inefficienza del governo, i giovani stanno facendo sentire la loro voce. Nonostante la battuta d’arresto causata dalla pandemia nel 2020, il movimento continua a rafforzarsi, come dimostra l’ultima manifestazione organizzata il 25 maggio. Ma anche lontano dalle piazze la società civile irachena è molto attiva ed effervescente e si sforza di portare avanti progetti e azioni in contesti spesso difficili, segnati da decenni di conflitti.

Sono tutti giovani gli attivisti del gruppo Green Iraq, che con il motto Yalla nazraa (Andiamo a piantare) si occupano d’interrare alberi e piante per contrastare il cambiamento climatico, i cui effetti sono particolarmente evidenti nel paese. La desertificazione e la mancanza di acqua colpiscono duramente alcune province, anche a causa della cattiva gestione delle risorse pubbliche da parte delle autorità. Lo denunciava un articolo del sito di approfondimento libanese Synaps, pubblicato nel numero 1346 di Internazionale. Taha al Kubaisy, coordinatore di Green Iraq, ha raccontato al giornale panarabo Al Araby al Jadid come funziona l’iniziativa, gestita esclusivamente da volontari che si sono incontrati online: “Ci sono quattordici team, ognuno composto da un numero tra 12 e 22 persone, in varie province del paese. I progetti cambiano in base alla topografia e alle possibilità del terreno di ogni località”.

Al Kubaisy assicura che i giovani hanno riscontrato una grande partecipazione da parte delle comunità locali, che spesso si sono attivate per curare gli arbusti piantati dai ragazzi, facendo rivivere un’attività tradizionalmente molto in voga nel paese: il giardinaggio. Sul tema dell’attivismo ambientale dei giovani iracheni si può vedere questo video pubblicato sul sito di Internazionale a giugno dell’anno scorso.

Consigli

Da vedere Quindici anni fa il gioielliere libanese Henry Loussian entrò in una dimora dell’epoca ottomana e se ne innamorò. Così gli venne l’idea di raccogliere gli elementi della ricca storia architettonica di Beirut e creare una sua residenza copiando lo stile del passato. A maggio il Musée Henry ;ha aperto al pubblico. Situato nella città costiera di Batroun, il museo si trova in un palazzo di tre piani, decorato con colonne di marmo e persiane di legno colorato. All’interno sono custoditi oggetti, mobili, fotografie, quadri e accessori raccolti in cento antiche dimore intorno alla capitale che sono state demolite. Come spiega un articolo di The New Arab, “l’architettura libanese è una miscela unica di influenze orientali e occidentali, che combina caratteristiche arabe, ottomane ed europee, mantenendo allo stesso tempo dei suoi elementi tipici, come le famose finestre a tripla arcata e i tetti in terracotta”. Ma molti edifici storici di Beirut sono stati venduti o abbandonati e in seguito distrutti per far spazio a nuovi progetti urbanistici. “Ogni casa è speciale”, ha detto Loussian a The New Arab, “e io volevo mettere insieme le cose più speciali di ognuna”. Il museo si può visitare prenotando online oppure si può ammirare su Instagram. Qui una puntata del documentario Zyara con Henry Loussian e un’intervista dal magazine di arte e cultura The Verbose.

Da leggere Kòshari è un’antologia di racconti arabi e maltesi a cura di Aldo Nicosia, ricercatore di lingua e letteratura araba all’università di Bari, con il contributo di otto studenti, uscito per la casa editrice Progedit. Il filo conduttore della raccolta sono le complesse, profonde e contrastate relazioni tra le generazioni a cavallo del nuovo millennio.

Questa settimana su Internazionale

Sul sito Zuhair al Jezairy sulle manovre politiche in vista del voto in Iraq.

Sul settimanale Il ritratto di Hengameh Yaghoobifarah, giornalista e scrittrice tedesca non binaria di origine iraniana, dal giornale olandese Volkskrant.

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