Una porta da chiudere a chiave
di Corinna De Cesare
Di Mare, la protagonista di "Omicidio a Easttown", amo tutto. Il suo menefreghismo quando con la camicia di flanella azzanna una bomboletta spray per condire un biscotto; il talento di riuscire a litigare con tutti senza sentirsi mai in colpa; la tranquillità quando, seduta sul divano di casa, sta per mangiare un panino ma il vetro della finestra dietro di lei viene infranto da qualcuno che, insoddisfatto delle sue indagini sulla morte di Erin McMenamin, glielo fa sapere lanciandole dentro casa una bottiglia di latte. I vetri arrivano ovunque, il latte pure. Mare scansa le schegge e continua a mangiare. Annalena Benini ha scritto un pezzo bellissimo su questa serie Hbo (in onda su Sky) che vi consiglio di recuperare: «Kate Winslet ha reso questo personaggio ancora più grande con la sua faccia spoglia, nuda, bellissima, con i capelli color cane giallo e con la capacità straordinaria di manovrare tutta l'imperfezione, tutta la pressione delle aspettative degli altri, per mostrare quanti volti e quanti sguardi ha l'infelicità e quante bottiglie di birra ci vogliono, una dopo l'altra, per sopportarla inverno dopo inverno, con lo stesso giaccone consunto addosso, con le stesse persone intorno che invecchiano o che si perdono nell'alcol. O che si disperano per la perdita di un figlio. In questa vita di provincia la disperazione è sempre una vicina di casa o una parente stretta: nessuno si sente al riparo dallo sfacelo». Tanto meno Mare che «accumula il dolore in un angolo invece di affrontarlo», che veste male e mangia peggio, che fa anche cose orribili pur di tenere suo nipote sotto il suo stesso tetto. Ma le fa, senza sentirsi in colpa, al contrario di noialtre che ci struggiamo per molto meno. Ti dobbiamo tanto Mare-Kate Winslet, soprattutto noi ragazze di provincia degli anni '80 cresciute a pane e Passaparola, Non è la Rai, Beverly Hills 90210 per cui il massimo dell'imperfezione sul grande schermo poteva essere una 21enne alla sua prima grande prova d'attrice, costretta in ogni intervista a parlare dei suoi due chili in più rispetto alle star del momento. Kate Winslet aveva 21 anni quando uscì Titanic e in tutto il mondo non si faceva altro che parlare del suo peso. I nostri compagni di scuola facevano battute sceme come quella di Joan Rivers (attrice e comica americana): «se avesse perso anche solo un paio di chili, Leo sarebbe riuscito a restare sulla zattera». A quell’età, ha raccontato Winslet diversi anni dopo, «stavo ancora cercando di capire chi diavolo ero e loro commentavano la mia taglia, quanto pesavo, stampavano sulle riviste persino la presunta dieta che stavo seguendo. È stato orribile». Com'è stato orribile per Britney Spears, costretta ancora oggi, alla soglia dei quarant'anni, a rivolgersi ai giudici americani per riavere indietro la sua vita e la sua libertà. La popstar sta cercando di mettere fine alla tutela che il padre Jamie ha su di lei dal 2008, quando ebbe un crollo psicologico e fu ricoverata in un istituto di salute mentale. Da allora è sottoposta al cosiddetto “conservatorship”, uno strumento legale americano che si applica a persone anziane, disabili mentali o non autosufficienti e che permette al tutore di controllare il patrimonio e la vita personale della persona assistita. Oggi la cantante si è ristabilita ma la tutela paterna continua: «Non posso sposarmi o avere un figlio – ha detto nel corso dell’ultima udienza in tribunale - ho una spirale ma non posso toglierla senza il consenso di mio padre». Mi è subito venuta in mente la storia di Judy Garland, tanti anni prima: quando venne scritturata per Il mago di Oz nel ruolo di Dorothy era il 1939 e la sua vita divenne un incubo. Non per il successo improvviso, ma per il controllo che gli altri pretendevano di avere sul suo corpo. Per evitare di prendere peso, fu costretta ad assumere dosi di farmaci dai quali rimase dipendente per tutta la sua vita. Lavorava per 18 ore in uno studio di registrazione e veniva vessata continuamente e sminuita per i suoi denti, le sue caviglie e il suo peso controllato da farmaci. Sono passati tanti anni da allora eppure anche per l'uscita di "Omicidio a Easttown" si è molto parlato del corpo di Winslet, di “pancia sballonzolante” e di un poster promozionale bocciato perché troppo ritoccato. Si è parlato di età e rughe, di vecchiaia e normalità, si è parlato di tutto tranne di una cosa fondamentale: ti dobbiamo molto Mare-Kate Winslet perché oltre alle bottiglie di birra necessarie per manovrare l'imperfezione e la pressione delle aspettative degli altri, a volte basta una camicia di flanella, una porta da chiudere a chiave e una serie tv con te (noi) dentro.  
L'autrice
Corinna De Cesare, 38 anni, è giornalista del Corriere della Sera. Founder di thePeriod,
il 22 aprile è uscito il suo romanzo d'esordio: "Ciao per sempre", Salani editore

 
Facebook
Twitter
Instagram
LinkedIn
Iscriviti al club ed entra a far parte della membership! Avrai tutto l'archivio della newsletter, potrai incontrare su zoom una volta al mese le autrici theP e avere a casa i gadget ciclici pensati solo per te. Avrai accesso anche a un canale Telegram in cui potrai dialogare tutti i giorni direttamente con Corinna e con la community thePeriod. Clicca qui per saperne di più. Puoi sostenerci anche con una donazione libera!
+++ AUGURI FEDE, FEDELISSIMA PERIOD GIRL ++++
Disagio post Covid
di Ilaria Gaspari
Sta succedendo anche a voi? Da un lato mi auguro di no, per gentilezza nei vostri confronti, per delicatezza… per riguardo, diciamo. Dall’altro, mi dico: mal comune, mezzo gaudio. Solo che il fenomeno a cui mi riferisco è uno di quei peculiari eventi psichici in cui, ahimè, si è soli: ognuno solo, trafitto dal proprio disagio. Anzi: è proprio la solitudine in cui ci si trova quando si è assaliti da questa caratteristica forma del sentire, che le permette di esistere, di abbarbicarsi a tutti i nostri pensieri, di mettere radici dentro di noi come un rampicante tenace.
E allora facciamo così, provo a vuotare il sacco per vedere se per caso il nodo si scioglie. Come un ghiacciolo al sole, che ti si appiccica tutto alle dita e tu non hai nemmeno un tovagliolino, né un goccio d’acqua per sciacquarti le mani, e allora come fai? Del resto, è precisamente a questo genere di sensazioni che sto pensando. La costellazione di cui fa parte la nuovissima forma del disagio che ci troviamo a fronteggiare comprende ogni manifestazione dell’imbranataggine, diverse categorie di gaffes e, in generale, tutte le sfumature della scomodità. Come quella sensazione di arrivare a una festa in cui non conosci nessuno, togliersi il cappotto e rimanere lì in attesa che qualcuno ti indichi dove appoggiarlo, insieme alla borsa; e tu aspetti, aspetti, e nessuno viene, nessuno ti dice nulla, anzi, inizi a sentire che ti stanno ignorando, e più cresce in te la consapevolezza della magra figura che stai facendo – in piedi, mentre tutti si divertono, in disparte, con quell’ingombro che gli altri, non si sa come, non hanno: ma non saranno arrivati anche loro bardati, con il cappotto, la sciarpa, la borsa? Come possono aver risolto tutto, mentre tu rimani ancora e ancora lì, con il tuo fagotto in mano – immobile ad aspettare un piccolo gesto di attenzione che non arriverà, più l'impaccio si alimenta, e d’improvviso sembra un ostacolo enorme, un impedimento a divertirti, un marchio che ti contraddistingue come l’unica persona a disagio in una stanza in cui tutti ti appaiono perfettamente ambientati, felici, rilassati. D’altra parte, la parola imbarazzo arriva dallo spagnolo cinquecentesco, embarazo, che vuol dire ingombro, carico: una donna incinta in spagnolo è embarazada perché porta il carico della pancia che cresce. Ma nell’essere semplicemente in imbarazzo, nel sentire il peso del carico che ci portiamo, c’è ben poco di poetico. Quando ci sentiamo in imbarazzo è perché non sappiamo sbloccarci e rimaniamo prigionieri di una percezione di isolamento, di solitudine dentro a un gruppo, anzi, sotto gli occhi del gruppo, che paiono fissarci con sdegno, o irriderci, o compiangerci: come se non conoscessimo i codici che invece gli altri padroneggiano perfettamente, e che infatti hanno permesso a tutti quanti di mollare i loro ingombri – i cappotti, le borse, l’embarazo – e di starsene liberi e leggeri mentre noi siamo lì, con il nostro peso, con il nostro fagotto ben visibile, troppo visibile, a chiederci perché non possiamo essere come gli altri.
Ed è così, imbarazzata di un imbarazzo che ha la stessa intensità del disagio che mi attraversava nel pieno dell’adolescenza, quando era fondamentale attenersi a dei codici di comportamento che spesso io proprio non conoscevo, che mi capita con frequenza impressionante di sentirmi in questo periodo di ritorni, di riaperture. Sono felice, per carità, di riscoprire la vita, di ritrovare le abitudini di un tempo, di riprendere le consuetudini interrotte; sono felice, a tratti francamente esaltata. Capita persino che mi commuova un pochetto, il pensiero che presto il periodo della pandemia sarà un ricordo, che sorrideremo degli aperitivi su zoom e dell’abbinamento pigiama-rossetto. Eppure, malgrado la gioia, quando mi trovo fisicamente a fare le cose che fino ai primi mesi del 2020 mi erano perfettamente naturale, mi sento improvvisamente come Alice quando mangia il fungo che la fa crescere di colpo: come se lo spazio che mi trovo a occupare fosse eccessivo e non sapessi dove mettere le braccia, le spalle, le mani, i piedi, le gambe, lo sguardo, soprattutto, lo sguardo. Come se avessi perso la protezione della casa, dello schermo-barriera trasparente fra me e il mondo, e il fatto stesso di essere rimasta tanto tempo in casa mi avesse contorta, cambiata, traviata, fino a trasformarsi in un segno che tutti vedono, ma che non mi protegge più.  Non mi so più vestire, questo è un fatto; non che prima fossi un asso dell’abbinamento, ma quantomeno sapevo calibrare le mie scelte rispetto alla stagione, alla temperatura, al clima. Ora, o gelo o muoio di caldo; e ne ho la percezione, e penso che tutti gli occhi che mi si fissano addosso lo notino, e va a finire che mi addentro in conversazioni letali, sul clima e il non sapermi vestire, e io per prima sento quanto sono noiosa, ed eccomi: imbarazzata, ancora di più, dalla consapevolezza del mio stesso tedio. Arrossisco e la coscienza del rossore mi aumenta il carico di altri chili, il cappotto ormai è pesantissimo, ho le braccia stanche. Mi tengo addosso la mascherina anche se ho caldo, anche se tutti mi daranno dell’ipocondriaca oltranzista, anche se all’aperto, seduti ai tavolini, potrei pure togliermela, e comunque come farò quando ci porteranno da bere, da mangiare? Vado nel pallone, a quel punto, ancor di più: dove la metto, la infilo in tasca, la nebulizzo con i dieci disinfettanti che mi porto dietro nella mia borsa pesantissima – il mio embarazo! – oppure l’appoggio sul tavolo, con l’ansia che possa cadere? A un certo punto, però, forse – anche se è presto per cantare vittoria – forse ho trovato il codice, o comunque, un indizio su dove cercarlo, come in una caccia al tesoro. Non dico che è venuto qualcuno a dirmi dove appoggiare il cappotto, o la mascherina – non si è presentato nessuno. Però una sera, qualche tempo fa, mentre il tramonto incendiava il cielo e io mi sentivo arrossire non so più per quale quisquilia, ho confessato alla persona con cui stavo parlando che in questo ritorno alla vita sociale mi sento sempre sulle spine, come se non sapessi più cosa dire, come se non sapessi più comportarmi, come se mi fossi inselvatichita. E con mia grande sorpresa, questa confessione che temevo mi si ritorcesse contro, tanto che già mentre le davo voce iniziavo a pentirmene, è stata avvolta da un gran sorriso, che mi ha fatta sentire come se di punto in bianco il mio immaginario pesantissimo cappotto si fosse dissolto nell’aria del tramonto. Anch’io mi sento così, mi ha detto quella persona; mi sa che stiamo così tutti, ha aggiunto e ha sorriso, e di colpo gli occhi sotto i quali mi pareva di diventare paonazza sono scomparsi, sono diventati sorrisi, e io non ero più rossa, non ero più sola, non avevo più le mani occupate a reggere pesi immaginari.
L'autrice
Ilaria Gaspari ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa, poi si è addottorata a Parigi, all’università della Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, "Etica dell’acquario" (Voland). Nel 2019 è uscito per Einaudi "Lezioni di felicità". Il suo ultimo libro è "Vita segreta delle emozioni". Ora vive a Roma, continua a scrivere e tiene corsi e laboratori di scrittura alla Scuola Holden e alla Scuola Omero 
Facebook
Instagram
Twitter
Vediamo se mi convinci
di Lorenzo Gasparrini

È già da parecchio che imperversa, sui social come in presenza, una risposta standard che molti uomini e donne forniscono a chi prova a informarli di alcuni loro comportamenti sessisti o molesti: “spiegamelo”. Esiste in molte versioni, di molti colori e con molti accessori: “devi dimostrarmelo”, “allora sentiamo perché”, “vediamo se riesci a convincermi”, “finora nessuna è riuscita a farmelo capire”, “ma chi la dice questa cosa? Dove sta scritta?” e così via. L’oggetto della dimostrazione è sempre, più o meno, lo stesso: che il patriarcato esista, che condizioni pur in modo diverso la vita di chiunque, che le nostre identità di genere sono al 99% costruzioni culturali non determinate dalla natura, dalla biologia, e che tutto ciò produca molestie, oppressioni, giudizi discriminanti, moralismi. Cosa c’è in palio in queste finte dispute, in questo agonismo contro una qualsiasi forma di pensiero femminista, è evidente: ristabilire un potere, rimettere a posto una forma di insubordinazione attraverso il ribadire una gerarchia. Sarebbe cioè un “dovere” spiegare - ancora e ancora, come fosse una novità - tutto quello che da almeno tre secoli è raccontato, documentato, studiato, comprovato da una quantità innumerevole di vite, documenti, esperienze, esperimenti, testimonianze, studi. Questo “dovere” è il segno di una sottomissione voluta, di una soppressione coatta: un mero esercizio retorico nel quale non conta affatto ciò che verrebbe spiegato ma l’espressione di potere che costringe, senza esito, alla spiegazione.
Vedo soprattutto molte donne, amiche, esperte, perdere tempo in questo tipo di discussioni, di dispute. Sono perdite di tempo perché ciò che spesso manca fin dall’inizio, in queste situazioni, sono le condizioni di partenza per un effettivo dialogo, per un reale scambio di opinioni, per una sana gestione di un conflitto. Se uno dei due non è disposto a mettere sul tavolo ciò che pensa e a contaminarlo con il pensiero altrui, se non c’è l’atteggiamento critico necessario soprattutto nei confronti di sé e delle cose che si sanno, se non si parte da un movimento paritario ma ci si mette in posizione più elevata dando all’intelocutrice o all’interlocutore tutti gli oneri della presentazione di argomenti, circostanze e prove, allora non si vuole fare una reale discussione; quello che si cerca è solo una forma di spettacolo. Non conta il legame affettivo o la stima personale verso chi chiede questo tipo di spiegazione; quella cui si partecipa così spesso è solo una rappresentazione, non una discussione: una specie di teatrino nel quale viene assegnato un gioco delle parti per cui non si può uscirne. Esattamente come nel caso di una “discussione” tra un astronomo e un terrapiattista - ma di che dovrebbero discutere, infatti? - l’unica cosa che si può produrre è una forma di esibizione, uno spettacolo nel quale i due fingono di discutere e invece si tirano addosso argomenti. La Terra è tonda, e se qualche poverә imbecille non ci crede e chiede un “contraddittorio”, abusando di un altro termine invocato a sproposito, lo fa solo per ricevere una visibilità che le sue strampalate teorie non possono avere, perché sono false.
La posizione maschilista, consapevole o meno che sia, è esattamente quella di chi crede che la Terra sia piatta, e che chiede di essere convintә di avere torto. Di fatto non c’è niente da spiegare, è stato già abbondantemente spiegato tutto. Il povero Eratostene di Cirene aveva calcolato con precisione sorprendente la circonferenza terrestre 23 secoli fa, e certo non immaginava che per così tanto tempo dopo di lui l’umanità avrebbe creduto a una Terra piatta solo perché chi sosteneva questa teoria aveva più potere politico di chiunque altrә. Invece andò proprio così, e pare che da questa storia non abbiamo imparato nulla: si continua a credere facilmente e senza dubbi a chi fa la voce più grossa, e non a chi ha sperimentato sulla sua pelle, e comprovato con studi e ricerche, una reale esperienza. Sì, il sessismo è praticamente ovunque, è uno strumento discriminante presente in tutte le forme di comunicazione, nei comportamenti di bambini e bambine e nelle cerimonie tra le figure più potenti e carismatiche del pianeta; sì, il linguaggio e le singole lingue sono depositi di queste forme di potere discriminanti, ed è importantissimo cambiare le espressioni linguistiche usandone altre o usandole diversamente se davvero vogliamo cambiare la società intorno a noi e i suoi meccanismi che provocano esclusione, sofferenza, disparità; sì, i femminismi non sono estremismi politici né chiacchiere da invasate, sono pratiche di libertà nate in territori, tempi e modi diversi e poi diventati teorie, modelli, esempi da condividere per dimostrare che esiste un odioso potere discriminante basato sul genere e che ce ne possiamo liberare tuttә con grandi benefici reciproci. Non c’è nulla da dimostrare a nessuno: chi vuole trova abbondante materiale, e anche facilmente, non è nulla di segreto o misterioso. È solo scomodo e fastidioso, soprattutto per chi crede di saperne già qualcosa. Quella messa in atto da tanti uomini e tante donne che chiedono continuamente di “essere convintә” è solo un’azione di potere, una ostruzione, la difesa di qualcosa che si ha paura ad abbandonare. I motivi possono essere i più diversi, e dovrebbe interessarsene proprio chi si ostina a crederli giusti. Chi chiede di essere informatә riceverà sempre materiale abbondante, ottimi consigli e interessanti scambi di vedute; chi pensa di avere ragione solo in virtù di quello che ha tra le gambe, o basandosi sui racconti degli amici suoi, sta benissimo così. Non è certamente divertente imparare che la propria percezione ha dei grossi limiti, che la nostra comprensione dei fenomeni è fortemente limitata dal funzionamento dei nostri sensi, dalle nostre dimensioni, dal nostro vivere troppo brevemente e in uno spazio limitato rispetto a molti eventi storici e naturali. Sono questi limiti a non farci percepire di camminare sospesi nel vuoto spaziale, attaccati a una grossa sfera un po’ schiacciata. Questo non ci ha impedito, però, di costruire e condividere gli strumenti per renderci conto sia dei nostri limiti che della realtà dell’universo. Sarebbe il caso di cominciare a farlo più diffusamente anche per quanto riguarda la società che abbiamo intorno.

L'autore
Lorenzo Gasparrini nasce a Roma nel 1972. Durante gli studi di filosofia e una breve carriera accademica in diverse università del centro Italia incontra testi e protagoniste dei femminismi, decidendo così, dopo aver iniziato un percorso di profonda critica personale, di dedicarsi alla diffusione e divulgazione di argomenti riguardo gli studi di genere, soprattutto rivolti a un pubblico maschile.  E’ autore di “Perché il femminismo serve anche agli uomini” (Eris, 2020)
Instagram
Website
Facebook
Facebook.com
http://www.instagram.com/
Email
"Ciao per sempre", il romanzo d'esordio di Corinna De Cesare, è disponibile in tutte le librerie oppure puoi comprarlo qui
Possiamo davvero dire addio a una persona, a un posto che abbiamo amato o che ha fatto parte di noi? Per il funerale della nonna, Margherita è costretta a tornare a Collina d'Oro, il luogo dov'è cresciuta negli anni Novanta, con i terreni coltivati che danno al paese "quel nome fiabesco e anche un po' ridicolo perché d'oro ci sono solo infinite distese di spighe di grano". Ad attenderla ci sono la sua vecchia casa, l'amica d'infanzia che non ha più voluto incontrare, il primo amore dal quale è scappata senza spiegazioni. Rivederli significa fare i conti con quindici anni di silenzi e di bugie, ammettere la possibilità del dolore e affrontare verità sopite per troppi anni, provando a riconciliarsi con gli strappi della vita. Perché c'è una crepa in ogni cosa e da lì entra la luce.
 Copyright © 2019 ThePeriod, All rights reserved
thePeriod è una newsletter gratuita, un progetto femminista, indipendente, intersezionale, senza compromessi che combatte il patriarcato e le discriminazioni di genere. La prossima newsletter uscirà il 16 Luglio. Aiutaci a farci crescere sui social cliccando MI PIACE qui o SEGUI qui. Vuoi far leggere la newsletter alla tua migliore amica che non è ancora iscritta? Mandagliela 


Want to change how you receive these emails?
You can 
update your preferences or unsubscribe from this list