L'arte di essere fragili
di Corinna De Cesare
Da quando è uscito il mio romanzo, non ho fatto altro che pubblicare post e immagini di instagrammabile entusiasmo. Brindisi, festeggiamenti, recensioni positive, presentazioni calorose, articoli sui giornali, servizi in radio e interviste. Eppure in questi mesi c'è stato anche altro che non ho voluto raccontare, qualcosa rimasta fuori dalla narrazione del successo a ogni costo. Come se le mie insicurezze, le paure, le delusioni non fossero sentimenti altrettanto dignitosi da descrivere. Li ho rimossi, cancellati dalle storie come si faceva quando al liceo si usava il bianchetto: due pennellate di correttore per far sembrare tutto perfetto, nessuna incertezza grammaticale, nessuna sbavatura o errore ortografico. Il foglio diventava all'improvviso pulito e perfetto, Instagram (e la vita) pure. Poi un giorno ho conosciuto dal vivo uno scrittore che ammiro, uno di quelli di cui leggi i libri e dici a te stessa "non sarò mai alla sua altezza". L'ho incontrato perché partecipavamo tutti e due a una rassegna letteraria: io l'esordiente imbucata, lui lo scrittore di successo che firmava autografi ad appassionate lettrici in trepidante attesa. Abbiamo parlato a lungo e quando le formalità erano ormai superate, la confidenza raggiunta, il tasso alcolemico innalzato, si è fatta spazio piano piano tutta la nostra umanità. Ingombrante, traballante e terribilmente fragile.
«Che altre presentazioni hai ora?» gli ho chiesto
«Pochissime. Perché soffro di attacchi di panico. Ho paura, mi tremano le mani, le vivo tutte malissimo. Quindi ogni volta ne faccio poche e come va, va». All'improvviso il muro di gomma era crollato insieme all'ostentata, finta, smania di perfezione con cui siamo abituati a mostrarci: schiavi delle nostre performance e della produttività, dei post a ciclo continuo per non sparire dal feed, l'ansia costante di restare nei pensieri degli altri. Quando Cesare Pavese scriveva al suo amico Mario Sturati, gli raccontava così le sue fragilità: «Ti scrivo a denti stretti, perché mi convinco sempre più che il tuo ingegno è un'unità forte e cosciente e tutta data al suo ideale, mentr'io mi trovo essere un poetino piccolino che teme di slargare ben gli occhi in faccia al sole per paura dello spasimo della luce...La mia è una lotta di tutti i giorni, di tutte le ore contro l'inerzia e lo sconforto, la paura; è una lotta, un contrasto in cui si va affinando, temprando il mio spirito come un metallo si separa nel fuoco dalla sua ganga e s'indura». Noi ormai, neanche con i nostri amici riusciamo a raccontare le nostre debolezze, figuriamoci a riconoscerle in pubblico in mondovisione come ha fatto Simone Biles. La prima ginnasta nella storia ad aver vinto cinque titoli mondiali nel concorso individuale e la prima a vincerne tre consecutivamente, si è ritirata dal concorso generale delle Olimpiadi ed è stata raccontata dai giornali italiani come un gigante che crolla, una donna in tilt. Con «quei demoni che entrano in testa» ad evocare strane e incomprensibili patologie psichiatriche. Peccato che, come ha fatto notare Giuditta Pini in un post, quel «fighting those demons» pronunciato dall'atleta americana è più vicino a «combattere le mie paure». Esattamente come facciamo tutti noi nella vita di tutti i giorni. C'è un piccolo dettaglio: Simone Biles ha appena 24 anni, ha vinto 19 medaglie d'oro, ha trascorso la sua infanzia ad allenare il corpo e a fare ciò che il mondo si aspettava da lei. Chi ha fatto sport a certi livelli, conosce bene la pressione a cui sono sottoposti gli atleti e la loro pressoché totale disumanizzazione. In questo caso, va aggiunta la violenza subita da Biles, vittima di quel mostro di Larry Nassar, il medico sportivo che per oltre vent'anni ha molestato e violentato centinaia di atlete americane, protetto dall'omertà e dai silenzi della Usa Gymnastics (avete visto, vero, "Atleta A" su Netflix?). E mentre noi giornalisti ci affrettavamo a mettere a confronto in prima pagina la forza di Federica Pellegrini con le fragilità di Simone Biles, l'atleta americana dava a tutti noi una lezione umana imprescindibile: «Devo fare ciò che è giusto per me e devo concentrarmi sulla mia salute mentale. Dobbiamo proteggere la nostra mente e il nostro corpo piuttosto che fare ciò che il mondo si aspetta da noi. Io valgo più dei miei successi e della mia ginnastica, qualcosa a cui non avevo mai creduto prima». Il New Yorker ha raccontato del "coraggio radicale" di Simone Biles perché è vero, bisogna avere un bel po' di coraggio nel mostrare pubblicamente le proprie debolezze e fragilità, i fallimenti. Soprattutto in un'epoca in cui il valore umano e professionale si mostra a colpi di cuori e follower, successi e classifiche, medaglie d'oro da appendere al collo. E quando racconti la tua vulnerabilità, soprattutto se non sei Simone Biles, c'è sempre il rischio dell'agguato, della derisione e dell'isolamento. Il suo ritiro non è stata di certo la vittoria che il pubblico, o la ginnastica americana si aspettava da lei alle Olimpiadi. Ma è il suo miglior risultato: quello di influenzare la prossima generazione di ginnaste e donne, più di quanto possa fare qualsiasi singola medaglia. Perché in fondo è questo che dovrebbero insegnarci da bambini: essere fragili è un'arte che non dovremmo smettere di praticare mai. Neanche da adulti.
L'autrice
Corinna De Cesare, 38 anni, è giornalista del Corriere della Sera. Founder di thePeriod,
il 22 aprile è uscito il suo romanzo d'esordio: "Ciao per sempre", Salani editore

 
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Il "vero" femminismo 
di Lorenzo Gasparrini
Non mancano certo, nel nostro paese, problemi e confusioni intorno al femminismo, in vari sensi. Pochə conoscono la storia dei movimenti femministi, e quindi l’uso corretto della parola è adoperato di rado. Per tanti e tante “femminismo” è il nome di una ideologia, di un estremismo politico e sociale, di un fenomeno passato e inutile o di una moda “politically correct” ritornata in voga. Fanno parte di questo particolare problema, alimentando confusione e ignoranze, molte donne che continuano - perché lo stanno facendo da anni - a presentarsi come detentrici della “vera” definizione di femminismo e di femminista, per i più svariati motivi: perché si definiscono tali da tanti anni, perché loro “c’erano” negli anni ‘60 e ‘70 quando i movimenti esplosero sulla scena pubblica per la prima volta in modo clamoroso, perché con le loro lotte hanno ottenuto risultati politici rilevanti (in quegli anni), perché da decenni occupano cattedre universitarie dalle quali “insegnano” femminismo, perché da altrettanti decenni sono presenze fisse su giornali e altri media riguardo i temi della discriminazione e della violenza verso le donne.
Il risultato generato da queste personalità ingombranti per visibilità, presenza continua e forme di rispetto e venerazione a loro attribuite da molte altre donne e uomini di altrettanto grande visibilità e presenza, è ben sintetizzato da una nota “legge di Murphy”: chi porta un notevole contributo in un qualsiasi campo, e ci rimane abbastanza a lungo, diventa un ostacolo al progresso in quel campo in proporzione diretta all’importanza del proprio contributo. 
Possiamo riderne quanto vogliamo, ma è esattamente quello che sta accadendo da anni in Italia. La maggior parte delle “femministe storiche” - appellativo usato approssimativamente proprio per permettere a chiunque di farvi parte o smentire la propria appartenenza a seconda delle opportunità - risultano nei fatti diffondere posizioni politiche discriminatorie, non conoscere la storia di altri femminismi e quindi parlarne a vanvera, ricorrere a retoriche vittimistiche o aggressive del tutto insensatamente verso altri femminismi. Lo scopo di questa particolare attività è evidente: non permettere ad altrə di assumere una posizione altrettanto rilevante nel dibattito pubblico, nella redazione delle testate d’informazione, nella considerazione dei e delle “pari grado”, nella proposta di interventi e finanziamenti pubblici per le proprie iniziative politiche e sociali. Per rendersi conto dei danni sociali provocati da queste persone - è il caso di includere le protagoniste assieme ad ancelle e sodali pronte e attenti a supportarle - è sufficiente ricorrere alla lettura della incredibile quantità di sciocchezze prodotte nei luoghi dell’informazione generalista a proposito di: 
  • definizione di “donna” ogniqualvolta una organizzazione LGBTQIA+ riesce a far parlare di sé per una iniziativa politica, un evento tragico, una efficace azione sul territorio;

  • proposta di legge dibattuta nelle Camere, con conseguente proliferazione di accuse e smentite reciproche riguardo gli effetti della proposta di legge;

  • questioni di linguaggio inclusivo, più o meno sollecitate dalla cronaca o da qualche commento da parte di figura “intellettuale”;

  • celebrazioni e manifestazioni nazionali a tema di genere (8 marzo, Pride, etc.).
Che sia chiaro: non si vuole mettere in discussione l’opportunità di un dibattito pubblico su questi argomenti, che è sempre preferibile a qualsiasi forma di indifferenza. Si vuole far notare la discutibile opportunità di avere più spazio, risalto, eco e diffusione data a posizioni sostenute da donne solamente in virtù di personali meriti acquisiti in altri tempi e luoghi, le quali così facendo soverchiano e zittiscono altre voci di donne che hanno eguale diritto e dovrebbero avere pari opportunità di far conoscere la propria posizione - spesso più sensata, attuale e “reale” dell’altra - invece di vederla combattuta e ammutolita con la sola forza oppressiva dovuta al “prestigio” di chi si oppone loro. In quanto uomo bianco cishet che si definisce femminista, il massimo dell’opposizione che ottengo sono risate di scherno, chiacchiere infantili in gruppi chiusi sui sociali e qualche “no” laddove si decidono partecipazioni a eventi. Cose di pochissimo conto e che posso facilmente diluire nella quantità di opportunità e occasioni che mi arrivano comunque. Ciò che mi spinge a parlare apertamente di queste questioni è la mia volontà di essere un alleato politico di quei femminismi e di quelle organizzazioni più spesso ostacolate da un particolare femminismo che vuole essere sempre e comunque il femminismo, il primo, l’unico e il solo femminismo titolato a parlare a nome di tutte le donne - donne definite in un solo modo ovviamente, quello voluto da il femminismo. Ci sono associazioni ed esponenti femministe che criticano il DDL Zan in quanto la definizione contenuta nel DDL, di identità di genere, riuscirebbe a “cancellare” l’identità delle donne, “annullare” la loro differenza dagli uomini, in virtù di una indebita cancellazione del dato biologico che solo potrebbe certificare l’identità di una donna in quanto tale. Allo stesso modo si può facilmente dimostrare l’inconsistenza delle polemiche sedicenti “femministe” intorno al linguaggio inclusivo, riguardo una sua inutilità o mancanza di consistenza politica, con attacchi continui e ambigui alle donne che portano avanti queste istanze di rappresentazione e visibilità dell’immaginario femminile. Altrettanto pericolosi, oltre che ridicoli, sono i continui “richiami all’ordine” da parte di patriarche del femminismo rivolte a “giovani” - molto spesso professioniste dell’informazione o delle pratiche femministe con decenni di esperienze e studi - che oserebbero mettere in discussione dogmi, posizioni e pratiche di fatto ormai controproducenti per l’attuazione di sensate politiche femministe, o per una più diffusa consapevolezza sociale di argomenti femministi. Per questo modo di fare non c’è che una definizione: opportunismo maschilista. Si tratta di conservare una posizione di potere ottenuta sicuramente per meriti ma poi difesa molto al di là di quei meriti; e per fare questo l’insegnamento e l’esempio patriarcale è indispensabile. Definirsi le uniche a poter trattare certi argomenti, usare la propria maggiore visibilità e presenza per imputarsi ruoli di comando e conoscenze “reali” delle cose, sfruttare per il proprio tornaconto posizioni politiche discutibili ma vicine alla “pancia” dell’opinione pubblica, ridicolizzare tramite la propria età, esperienza e amicizie le pratiche altrui - tutti comportamenti molto usati da una destra conservatrice che tante sedicenti femministe replicano tranquillamente, quando avvertono che la loro posizione di potere (mediatico o decisionale) è minata da altre, spesso superiori, competenze e saperi femministi. Il risultato di questo modo di fare, presso un’opinione pubblica che fa fatica a informarsi correttamente, è quello di mostrare il lato peggiore di un movimento: la guerra per il potere di comandarlo. Giocare a il mio femminismo è più lungo del tuo è forse la pratica meno femminista di tutte, e non si capisce davvero a chi possa giovare - a parte a chi è già in una posizione prominente e, anche se non rappresenta affatto né una maggioranza, né una “verità”, né una autorevolezza confermata, ha gioco facile a mantenersi saldamente al suo posto: il posto di un’alleata del patriarcato.
L'autore
Lorenzo Gasparrini nasce a Roma nel 1972. Durante gli studi di filosofia e una breve carriera accademica in diverse università del centro Italia incontra testi e protagoniste dei femminismi, decidendo così, dopo aver iniziato un percorso di profonda critica personale, di dedicarsi alla diffusione e divulgazione di argomenti riguardo gli studi di genere, soprattutto rivolti a un pubblico maschile.  E’ autore di “Perché il femminismo serve anche agli uomini” (Eris, 2020)
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La vita nell'armadio
di Ilaria Gaspari

Per qualche ragione, succede d’estate. È un po’ una versione estiva del Canto di Natale: al posto della neve, afa e zanzare mentre fantasmi di estati passate tornano a visitarmi. Penso che sia tutto legato alla vita degli oggetti, che come talismani si risvegliano; al ciclo dei mesi che rende evidente l’irripetibilità delle occasioni, spalanca lo spettacolo delle differenze e delle costanti, riverberando nel rituale sempre troppo rimandato del cambio di stagione, inteso nel suo senso più concreto: tirar fuori i vestiti dall’armadio. A maggio inizio a dirmi che sta arrivando il momento fatidico, e contestualmente comincio a rimandarlo. Quest’anno mi sono ridotta a qualche giorno fa: la mia pigrizia è stata più tenace dell’afa. Ho fatto ruotare gli stessi tre-quattro vestiti, finché proprio non è stato più possibile rimandare. Allora mi sono tuffata in quel mare di stoffe e ho rivissuto tutto daccapo.
Dovete sapere che io sono il tipo di persona esageratamente sentimentale che conserva qualsiasi cosa. Ho biglietti del cinema che risalgono ad arcaici primi appuntamenti fissati via SMS sul mio Nokia 3310. Ho cassetti pieni di carte che impacchettavano regali di compleanni che non ricordo, collane rotte con l’idea che le riparerò, rossetti che per fortuna ho abbastanza buonsenso da non spalmarmi più sulle labbra perché le conseguenze potrebbero essere letali – ciononostante, non mi si può chiedere di buttarli. Addirittura ho un cofanetto Pupa a forma di diavolo, retaggio di un tempo in cui non avevo un’idea neppure approssimativa di come, e soprattutto dove, andasse applicato l’ombretto. I miei libri sono pieni zeppi di biglietti di treni per la tratta Milano-Pisa, risalenti agli anni dell’università; affollamento che accresce il volume delle pagine, preme sui dorsi, ispessisce insomma ulteriormente la cubatura già ingestibile della mia biblioteca, eppure non mi sogno nemmeno di buttare gli inservibili cartoncini su cui sbiadiscono date e ore di giorni dimenticati, impressi da obliteratrici oggi probabilmente in disuso. Potete dunque immaginare, date queste premesse, lo stato in cui versa il mio guardaroba. Nonostante gli innumerevoli traslochi, nonostante il poco spazio, nonostante le pur frequenti donazioni a enti di beneficenza e ad amiche che abbiano manifestato una pur vaga inclinazione per un vestitino o una camicetta, nelle scatole dell’estate sopravvivono reperti dei miei quattordici-quindici anni che non mi entrano nemmeno per scherzo, ma che, di anno in anno, mi ritrovo a riesumare imperterrita. Ho una magliettina tie and dye, rossa ma sfumata di rosa grazie a un sapiente bagno nella candeggina previa annodatura, lascito del viaggio studio a Dublino nel 2001, quando vivevo in una fantasticheria post-hippie e compravo abiti solo nei negozi dell’usato. Un top bianco con scollo all’americana di una stoffa che più che stoffa è plastica, del 2003, quando passai l’estate in Australia dove naturalmente era inverno ma, nel giro di ventiquattr’ore, forse per reazione al fatto che laggiù mi toccava andare a scuola in divisa, gonna tartan camicia cravatta e blazer con lo stemma della scuola, mi ero intamarrita abbastanza da ignorare le stagioni e, fuori da scuola, addobbarmi per una perenne estate da telefilm. C’è il regalo che mi sono fatta con il mio primo stipendio, ricevuto per aver collaborato come editor a una raccolta di saggi su Kant: un vestito da principessa punk di Thierry Mugler, preso in un negozio dell’usato a Pisa, mai indossato. E un Dolce&Gabbana vintage, di pizzo, a sirena, comprato a Parigi a un mercatino, con cui mi sono pavoneggiata a un paio di matrimoni e che poi non mi sono più sognata di infilarmi. Ci sono un’infinità di travestimenti, di esplorazioni; di me stesse provvisorie vissute per non più di una sera, farfalle sperimentali di un tempo in cui mi divertivo, a tratti mi tormentavo, nel tentativo di accelerare la metamorfosi, la muta, il cambiamento che mi avrebbe portata ad abbandonare l’involucro insoddisfacente della pupa che ero. Forse non riesco a buttare tutte queste ali alternative, troppo presto scartate, dimenticate, passate di moda e di gusto, tutta questa sfilata di versioni di me che sorridono nelle fotografie sviluppate, e ovviamente conservate nelle scatole a centinaia, sotto tagli di capelli spericolati e col senno di poi inguardabili, perché ho bisogno di ricordarmi, di non perdere di vista quella ricerca, quel tormento, quelle piccole torture dello sguardo. Forse ho bisogno di perdonarmi l’accanimento con cui, di anno in anno, mi proponevo di migliorare, di essere più bella l’estate successiva. Oggi questa idea autoimposta di miglioramento sembra darmi tregua; forse mi sono un po’ trovata, forse dentro di me so che ormai è tardi per sperare in cambiamenti miracolosi; so solo che per arrivare al punto in cui sono ora c’è stato bisogno di tutti gli esperimenti infelici, dei travestimenti in cui ho cercato, inutilmente, di cancellarmi, di perdermi, di vedere se riuscivo a somigliare a qualcun’altra, a essere io non essendo più io. Ci sono voluti gli anni e i tentativi che rimangono a ingombrare il mio armadio, perché finalmente mi fosse chiaro che potevo, nel migliore dei casi, somigliare soltanto a me stessa. La nostalgia è il dolore profondo, irreversibile, ma dolce, che ci coglie nel momento in cui ci rendiamo conto che proprio non possiamo riscattare l’innocenza, tornare a essere chi eravamo ieri, disfarci del senno del poi che ci fa sorridere, e inorridire, di un malriuscito taglio alla Rachel o dell’ombretto azzurro ghiaccio in stick che cozzava con l’abbronzatura, ma che nei primi anni duemila andava assolutamente abbinato al choker nero di plastica che ti lasciava quasi una cicatrice sul collo. Ma è dolce, appunto, come l’odore di zucchero filato di una crema di cui profumava il mio corpo quando mi vedevo irreversibilmente brutta, e un po’ lo ero, ma ero anche bella in un modo che vedo solo adesso – la nostra bellezza, in fondo, come la felicità in un verso di Prévert, spesso la riconosciamo dal rumore che fa non quando se ne va, ma quando è già cambiata, quando è una traccia in una fotografia, un bottone saltato a un gilet della mia fase bohémienne, bottone che non riattaccherò. Ma l’altro giorno, in profumeria, ho visto che hanno rilanciato la crema allo zucchero filato; per un attimo ho pensato di comprarla, poi mi sono vinta ma non escludo, domani o dopo, di cedere. 

L'autrice
Ilaria Gaspari ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa, poi si è addottorata a Parigi, all’università della Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, "Etica dell’acquario" (Voland). Nel 2019 è uscito per Einaudi "Lezioni di felicità". Il suo ultimo libro è "Vita segreta delle emozioni". Ora vive a Roma, continua a scrivere e tiene corsi e laboratori di scrittura alla Scuola Holden e alla Scuola Omero 
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