{vb} Ciao Donata, grazie di essere qui. Dimmi, anche tu tracci ogni attività della tua vita quotidiana?
{dc} No, ho smesso! L'ho fatto per due anni con un braccialetto di monitoraggio dell'attività fisica e del sonno, prima dell'arrivo di molti smartwatch sul mercato — ma sono troppo performativa, alla fine non mi divertivo più. Adesso se raccolgo dati su qualche aspetto della mia quotidianità lo faccio creando database con oggetti fisici, almeno vado offline ogni tanto.
E come è nato il tuo interesse per il giornalismo dei dati e per la comunicazione visuale? Ci conosciamo da anni e non te l'ho mai chiesto.
Credo sia stato a partire dalla pubblicazione del progetto The Migrant Files, nel 2013, a cura di un network di giornalisti europei tra cui i miei attuali soci di Dataninja Andrea Nelson Mauro e Alessio Cimarelli: per la prima volta qualcuno aveva raccolto e verificato i dati dei naufragi nel Mediterraneo, mettendo insieme diverse fonti giornalistiche e istituzionali e creando il database più affidabile esistente su questo fenomeno. I numeri, spaventosi, che indicavano l'esistenza di un vero e proprio cimitero nel nostro mare, venivano poi visualizzati in tempo reale su una semplice mappa a simboli proporzionali, di grande impatto. Non esistevano ancora le banche dati pubbliche dell'UNCHR o dell'OIM, quindi quel lavoro basato sui dati fu veramente una pietra miliare del data journalism europeo, infatti ricevette diversi premi l'anno successivo.
Come giornalista che si è formata nel mondo della cooperazione internazionale sono rimasta particolarmente colpita dalla potenza di questo lavoro. Nel 2014 ho avuto la fortuna di mettermi alla prova partecipando al percorso di formazione sul data journalism organizzato da La Stampa Academy con Google, formando una squadra con altre giornaliste e designer. Vincemmo il contest finale, con la possibilità di produrre un lavoro data driven per il quotidiano piemontese. Poi ho continuato a collaborare con Dataninja e nel 2019 abbiamo lanciato la prima scuola di formazione sui dati.
La pandemia che stiamo vivendo ha sicuramente contribuito a rimettere i ‘numeri’ al centro del flusso informativo: tu stessa, nel libro, la definisci “l’evento più data-informed della storia”. Puoi spiegarmi che cosa è successo in questi due anni, secondo te, e che impatti quanto accaduto potrebbe avere nel nostro rapporto con i dati sul medio-lungo termine?
È una definizione che abbiamo usato in Dataninja quando ci siamo trovati a intervenire in tantissimi dibattiti pubblici che avevano al centro i dati della pandemia: nessuno di noi ha studiato medicina o ha competenze di epidemiologia, eppure il fatto di lavorare con i dati ci ha fatti diventare un punto di riferimento non per capire l'impatto del virus o delle politiche di contenimento sulla salute delle persone, ma semplicemente per interpretare i grafici che ormai comparivano ovunque, anche in prima serata in tv. Ora ci sembra normale, ma un grafico a linee commentato in un talk show televisivo non era assolutamente frequente prima di marzo 2020.
Ci siamo resi conto che i dati ci riguardano, perché vengono usati dalla politica per prendere decisioni che influenzano la nostra vita quotidiana, anche se ovviamente lo fanno da sempre. Durante l'emergenza sanitaria è diventato molto più evidente. Sul medio lungo termine secondo me è aumentato l'interesse delle persone nel capire percentuali, dati e grafici citati nelle notizie, lo dimostra anche l'enorme seguito dei divulgatori scientifici sui social. Ma aumenta anche l'uso e l'abuso che se ne fa per portare avanti le proprie posizioni. In questo momento circolano grafici e dati interpretati in modo diverso da no vax e pro vax, per fare un esempio.
Negli ultimi anni quasi tutti i giornali hanno introdotto pratiche di data journalism e di data visualization nel loro ciclo di produzione quotidiana. In Italia siamo arrivati a un punto soddisfacente, sotto questo aspetto, oppure resta ancora molto da fare? Come la vedi?
Secondo me la maggior parte delle testate si è resa conto della necessità di avere specialisti nel team o almeno come collaboratori fissi. Manca ancora però "la cultura del dato" trasversale, intesa come l'interesse e la capacità di usare i dati per migliorare la qualità di una notizia. Mi ha colpito il fatto che al Financial Times esista la figura della statistical journalist (che è l'italiana Federica Cocco), cioè la persona che aiuta tutta la redazione a usare correttamente numeri e statistiche nelle notizie. Fare data journalism non vuol dire per forza pubblicare data visualization spettacolari alla New York Times, ma avere una redazione preparata nella lettura, nell'interpretazione e nel racconto del dato.
Il dato è politico, ed è filtrato dai bias: i bias di chi li raccoglie, di chi li analizza, e di chi li interpreta — anche dei lettori, per esempio. Secondo te cosa possiamo fare per sviluppare una migliore conoscenza dei nostri stessi bias e imparare magari a combatterli? Quali strumenti abbiamo a disposizione?
Riconoscere che i bias esistono e che non ne siamo immuni, perché le nostre idee sul mondo dipendono dal contesto in cui siamo cresciuti, dalle nostre esperienze personali, dalla nostra dieta mediatica e dalla bolla di persone che frequentiamo. Secondo me l'unico modo è adottare un atteggiamento curioso, aperto, e farsi moltissime domande davanti a dati e grafici. Le autrici di Data Feminism Catherine D'Ignazio e Lauren Klein propongono di partire dal chi (chi ha raccolto i dati, chi è beneficiato da questa raccolta, chi ne sarà penalizzato); Hans Rosling, divulgatore e medico svedese, in Factfulness suggerisce di tenere a bada la nostra visione iperdrammatica del mondo facendo attenzione a 10 istinti o "megaequivoci" che abbiamo nell'interpretare i dati; Tim Harford in The Data Detective consiglia di mettere da parte i sentimenti, perché anche di fronte ai numeri reagiamo con emotività, l'importante è riconoscerlo.
Secondo i dati OCSE PISA, il 46,3% degli italiani tra i 16 e 65 anni dimostra un livello di analfabetizzazione funzionale piuttosto grave (di livello 1 e livello 2). In pratica si tratta di persone che non sono in grado di comprendere e interpretare correttamente ciò che leggono o che ascoltano. Secondo te la data visualization è un’arma per combattere questo problema, oppure c’è il rischio che possa creare una barriera ancora maggiore? Del resto molte infografiche non sono così semplici da capire.
La penso come l'esperto di infografiche Alberto Cairo: un grafico o una data visualization non sono opere d'arte, vanno lette, esplorate, non ammirate. Questa competenza viene chiamata graphicacy o data literacy ed è come saper parlare una lingua straniera. Bisogna allenarsi a farsi molte domande davanti a una data visualization, altrimenti si rischia di cadere nelle trappole della disinformazione anche in questo campo.
L'intervista a Donata continua su ellissi.email: parliamo dell'importanza della semplicità, dell'utilizzo 'marketing' delle infografiche e persino del PNRR.