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4 febbraio 2022

Sudamericana

La newsletter sull’America Latina a cura di Camilla Desideri

In cerca di opportunità Anat Procianoy aveva diciannove anni quando la sua famiglia decise di lasciare l’Argentina per trasferirsi in Israele. Era il febbraio del 2002 e il paese sudamericano stava attraversando una delle crisi economiche più gravi della sua storia: si erano alternati cinque presidenti nel giro di poche settimane e le restrizioni all’accesso di conti correnti e casse di risparmio aveva scatenato proteste violente, con le persone arrabbiate e ammassate davanti alle banche che chiedevano a gran voce di poter avere accesso ai loro soldi. La repressione delle forze dell’ordine era stata molto dura e in soli due giorni, tra il 19 e il 20 dicembre 2011, erano morte trentanove persone nelle manifestazioni.

Decine di migliaia di argentini lasciarono il paese in quel periodo, perché avevano perso il lavoro o perché pensavano che avrebbero trovato maggiori opportunità all’estero. Tra questi c’era anche la famiglia Procianoy. Qualche anno dopo, quando la situazione politica ed economica si era abbastanza stabilizzata, alcune persone decisero di tornare. Fu il caso anche di Anat, che rientrò in Argentina nel 2011, quasi trentenne, e che oggi vive nei dintorni di Buenos Aires con il marito e il figlio. Anche se la situazione economica nel paese è di nuovo precaria – l’inflazione ha superato il 50 per cento – Anat ha detto a Bbc mundo che non è pentita di essere tornata: finché ha un lavoro, resterà in Argentina. Però negli ultimi tempi è stata testimone di un fenomeno preoccupante, che la riporta al suo passato: molti amici se ne sono andati o si stanno organizzando per farlo nei prossimi mesi.

Verso l’Europa Secondo i dati forniti dalla Direzione nazionale per le migrazioni, tra settembre 2020 e ottobre 2021 circa sessantamila persone hanno lasciato il paese, il che equivale a più di duecento persone al giorno. Ma i numeri potrebbero essere più alti, visto che molti dichiarano di partire per motivi di turismo o di studio. Ad andarsene oggi sono soprattutto argentini e argentine della classe media e alta, con titoli di studio di secondo grado e lauree, stanchi e sfiduciati dalle crisi economiche cicliche o con lavori sottopagati. Una differenza rispetto a vent’anni fa, quando l’emigrazione era molto più eterogenea sia dal punto di vista professionale sia da quello socioeconomico. E ancora: se nel 2001 e 2002 molti lasciarono il paese di fretta e con il poco che avevano – tanti argentini avevano perso tutti i loro risparmi – oggi chi decide di partire lo fa pianificando meglio il viaggio logisticamente ed economicamente. È un fenomeno che nel suo piccolo ha potuto osservare anche Anat: amici con una buona posizione economica hanno comunque deciso di partire per garantire un futuro migliore ai loro figli. Un fattore che sicuramente ha influito è stata la chiusura prolungata – più di un anno – delle scuole a causa della pandemia.

Una delle destinazioni preferite da chi lascia l’Argentina è la Spagna, per affinità culturali e perché si parla la stessa lingua. Ma c’è anche l’Italia, dal momento che in Argentina vive una numerosissima comunità di discendenti degli italiani emigrati nel paese sudamericano all’inizio del novecento. Poi ci sono altre mete scelte soprattutto per la vicinanza geografica: l’Uruguay e la sua capitale Montevideo, ma anche il Paraguay, il Brasile e il Cile. Infine gli Stati Uniti sono la destinazione scelta da chi già possiede un discreto capitale di partenza e vuole ampliare un’attività commerciale o spera di aprirne una nuova. Partire non è mai una scelta facile, ma tutti gli argentini che in questi mesi se ne stanno andando ammettono di aver perso ogni speranza che le cose possano un giorno cambiare.

Finalmente un accordo Nel frattempo, dopo mesi di negoziati intensi ed estenuanti, il 25 gennaio il presidente peronista Alberto Fernández ha annunciato di aver raggiunto un accordo con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per ristrutturare 44,5 miliardi di dollari di debito che risale al prestito di 57 miliardi di dollari chiesto nel 2018 dall’allora governo di Mauricio Macri (destra) per evitare l’insolvenza. Anche se ancora non si conosce il testo definitivo dell’intesa, il ministro dell’economia Martín Guzmán ha dato qualche anticipazione e ha assicurato che non ci sarà una svalutazione brusca del peso, né privatizzazioni di aziende pubbliche e che non si prevedono nemmeno riforme pensionistica e del lavoro. Non ci saranno ulteriori aumenti delle tariffe del gas e della luce oltre al 20 per cento già annunciato. I futuri pagamenti delle rate del debito saranno congelati per quattro anni e mezzo. Uno dei punti più discussi dell’accordo è l’impegno dell’Argentina alla riduzione graduale del deficit fiscale primario (cioè il deficit al netto degli interessi sul debito) dal 2,5 per cento del pil attuale allo 0,9 per cento nel 2024.

Una bambina che raccoglie e poi rivende cartone a Buenos Aires, 27 gennaio 2022. (Rodrigo Abd, Ap/LaPresse)

Attualità

Brasile Il 19 gennaio il governo di Rio de Janeiro ha lanciato Cidade integrada, un nuovo progetto definito di “occupazione sociale” nelle favelas della città. L’operazione è cominciata all’alba con più di mille poliziotti e militari che hanno occupato la zona di Jacarezinho, nel nord della città. Nel maggio del 2021 un intervento della polizia nella stessa favela aveva provocato 28 vittime, il bilancio più grave nella storia dello stato. Sempre il 19 gennaio più di cento agenti hanno occupato la favela di Muzema. “Le operazioni di oggi sono solo l’inizio dei cambiamenti che vanno al di là della questione della sicurezza”, ha scritto su Twitter il governatore Cláudio Castro, un alleato del presidente Bolsonaro. Secondo le autorità, l’obiettivo è riconquistare territori controllati dalle milizie, ma molti analisti sono critici perché in passato operazioni del genere, come la “pacificazione” lanciata prima dei Mondiali del 2014, hanno solo causato più violenza e peggiorato la vita degli abitanti dei quartieri poveri.
 

  • Le alluvioni e le frane provocate dalle forti piogge il 30 gennaio hanno causato la morte di almeno diciannove persone nello stato di São Paulo costringendo circa cinquecentomila persone a lasciare le loro case inagibili. Molte strade sono rimaste bloccate. Dopo aver sorvolato la zona, il governatore João Doria ha annunciato che destinerà 15 milioni di real (2,5 milioni di euro) alle città e ai municipi più danneggiati dalle alluvioni. Lo stato di São Paulo è il più popoloso del Brasile, ci vivono circa 46 milioni di persone.

Uruguay Migliaia di donne e di collettivi femministi il 28 gennaio hanno manifestato a Montevideo contro la cultura della violenza dopo che una donna di trent’anni aveva denunciato il 23 gennaio di essere stata stuprata da un gruppo di uomini. La donna aveva conosciuto un ragazzo in un locale, era andata a casa sua e aveva cominciato ad avere un rapporto consenziente con lui. Ma dopo poco altri tre uomini (di cui uno minorenne) erano entrati nella camera e avevano cominciato ad abusare sessualmente di lei. “La cultura dello stupro”, si legge nella convocazione della protesta, “è continuare a sostenere che gli uomini hanno ‘necessità’ o ‘impulsi sessuali’ che non possono controllare. Tutti i giorni ci scontriamo con discorsi che alludono alla paura, al dubbio, al silenzio”. Le donne chiedono azioni più concrete da parte dello stato, così come maggiore educazione sessuale nelle scuole, a partire dalla materna fino all’università. Il 25 gennaio il presidente Luis Lacalle Pou ha dichiarato che “per questi atti aberranti che non sono propri né del genere umano né del genere maschile la pena dovrà essere esemplare”.

Guatemala Il 24 gennaio la corte suprema del paese ha condannato cinque ex paramilitari a trent’anni di prigione per aver stuprato decine di donne indigene di etnia achí negli anni ottanta, durante la guerra civile. Gli uomini condannati facevano parte delle Pattuglie di autodifesa civile (Pac), una milizia creata dall’esercito guatemalteco. All’epoca dei fatti, le donne che hanno subìto violenza avevano tra i 12 e i 52 anni. Durante il conflitto civile guatemalteco, tra il 1960 e il 1996, circa duecentomila persone sono scomparse o sono state uccise. Molte appartenevano a gruppi indigeni presi di mira dalle milizie paramilitari e dall’esercito con l’accusa di sostenere i gruppi guerriglieri di sinistra. “La giustizia è arrivata dopo quarant’anni”, scrive il sito indipendente Plaza Pública. “Durante il processo i giudici hanno sottolineato in varie occasioni che lo stupro fu usato come arma di guerra da parte dello stato”.

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El Salvador Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha chiesto il 25 gennaio al governo di revocare l’adozione del bitcoin come valuta nazionale, mettendo in guardia contro i rischi per i consumatori e per la stabilità e l’integrità finanziaria. Il 7 settembre 2021 il Salvador è diventato il primo paese al mondo ad adottare il bitcoin come valuta nazionale. L’obiettivo del presidente Nayib Bukele era attirare gli investitori stranieri e permettere agli emigrati salvadoregni di spedire soldi a casa più velocemente e a costi più bassi. “L’adozione di una criptovaluta come moneta di corso legale comporta rischi gravi per l’integrità finanziaria e di mercato, la stabilità economica e la protezione del consumatore”, ha sottolineato l’Fmi. A novembre un’inchiesta del sito indipendente El Faro aveva rivelato i piani di Bukele per finanziare lo stato salvadoregno senza ricorrere agli organismi multilaterali. Ne ha parlato in modo più approfondito la scorsa settimana Alessandro Lubello nella sua newsletter Economica.

Honduras Il 27 gennaio Xiomara Castro, del partito di sinistra Libertà e rifondazione (Libre), si è insediata come presidente, prima donna nella storia del paese. Alla cerimonia era presente Luis Redondo, che Castro riconosce come il presidente legittimo del parlamento. Il 21 gennaio alcuni dissidenti del partito Libre avevano votato un presidente del parlamento alternativo, Jorge Cálix, con il sostegno dell’opposizione di destra. La giornata era degenerata in una rissa tra i deputati di Libre e i dissidenti dello stesso partito, accusati di essere dei “traditori”. “Indebolita ancora prima di insediarsi come presidente”, racconta Jacobo García in un reportage sul País, “Castro si è dovuta riunire con Cálix e offrirgli un posto nel suo governo. Oltre alle divisioni politiche, la presidente dovrà affrontare i problemi di un paese povero e in piena crisi economica, dominato dalla violenza e dal narcotraffico.

Giornalisti in Messico

Durante la manifestazione a Città del Messico per chiedere al governo azioni concrete per la sicurezza dei giornalisti, 25 gennaio 2022. (Daniel Cardenas, Anadolu Agency/Getty Images)

Migliaia di persone – cittadini e molti giornalisti e professionisti dell’informazione – sono scese in piazza il 25 gennaio in più di quaranta città del Messico per protestare contro la violenza che colpisce tutto il paese e in particolare i giornalisti. L’hashtag della mobilitazione nazionale è stato #PeriodismoEnRiesgo, giornalismo a rischio. Da alcuni anni il Messico è uno dei paesi più pericolosi del mondo per i giornalisti e l’impunità è altissima, aggressioni, minacce e omicidi rimangono senza colpevoli. Le intimidazioni e la paura costringono molte testate e molti cronisti ad autocensurarsi, per paura delle ripercussioni. Il 2022 è cominciato con un bilancio grave per la stampa: tre giornalisti sono stati uccisi in meno di un mese, due dei quali a Tijuana, città alla frontiera con gli Stati Uniti. Il direttore del sito Inforegio, José Luis Gamboa, è stato ucciso il 10 gennaio a Veracruz mentre il 17 gennaio il fotoreporter Margarito Martínez è stato assassinato vicino alla sua casa di Tijuana, nel nordovest del paese. Martínez, che aveva 49 anni, si occupava prevalentemente di criminalità organizzata e aveva subìto delle minacce il mese scorso. Poi, il 24 gennaio, la procura generale dello stato della Bassa California ha annunciato che la giornalista Lourdes Maldonado López era stata assassinata il giorno prima a Tijuana. Oltre che per la sua lunga carriera, in città Maldonado era conosciuta per tre motivi: la sua lingua tagliente, il modo diretto e scomodo di denunciare le ingiustizie e la sua macchina rossa. Era consapevole del rischio che correva con il suo lavoro e nel 2019, durante un incontro con il presidente Andrés Manuel López Obrador, aveva detto: “Temo per la mia vita”. Secondo l’organizzazione indipendente Committee to protect journalists, dal 1992 a oggi in Messico sono stati uccisi sessanta giornalisti per motivi legati al loro lavoro e quindici sono scomparsi.

Ambiente

Petrolio in mare Il 22 gennaio le autorità del Perù hanno dichiarato novanta giorni di emergenza ambientale dopo che alcune onde anomale causate dall’eruzione di un vulcano sottomarino vicino all’isola di Tonga, avvenuta il 15 gennaio, hanno provocato una fuoriuscita di petrolio dalla raffineria La Pampilla, di proprietà dell’azienda spagnola Repsol, sulle coste del Pacifico a nord di Lima. Il presidente Pedro Castillo ha detto che si tratta del peggior ecocidio mai avvenuto sulle coste del paese: sono state contaminate più di venti spiagge e cinque riserve naturali, e uccelli e altri animali marini sono morti. Più di tremila persone – pescatori, commercianti e artigiani – sono rimaste senza lavoro. Le autorità del Perù hanno aperto un’indagine per stabilire se la Repsol ha preso tutte le misure necessarie a mitigare le conseguenze del disastro ambientale. Se fosse giudicata colpevole, la compagnia potrebbe pagare un massimo di 35 milioni di dollari di sanzione, cioè l’1,8 per cento del totale delle vendite nel 2020, uno dei suoi anni peggiori.

Lontano da Lima “Quello che è successo in Perù sarebbe uno scandalo internazionale e starebbe sulle prime pagine di tutti i giornali spagnoli se non fosse avvenuto in un paese del Sudamerica e a causa di una potente azienda petrolifera abituata a ‘pulire’ la sua immagine sulla stampa”, afferma la scrittrice e giornalista Gabriela Wiener in una column sul Diario.es. Secondo il giornalista Joseph Zarate, quest’ecocidio è solo l’ultimo episodio di una serie di catastrofi di cui non si parla, che avvengono lontano da Lima, nelle montagne e nelle foreste, provocando morti, malattie e sfollati interni. Dal 2000 al 2019 ci sono state quasi cinquecento fuoriuscite di petrolio nell’Amazzonia peruviana, la maggior parte causate da condutture vecchie ed errori operativi delle aziende. Il 28 febbraio il ministro dell’ambiente Rubén Ramírez ha reso noto che il disastro è più grave di quanto si pensasse inizialmente: nell’oceano si sono riversati dodicimila barili di petrolio, non seimila.

Un lavoratore durante le operazioni di pulizia nella spiaggia di Ancón, 25 gennaio 2022. (Pilar Olivares, Reuters/Contrasto)

Da ascoltare

  • La grande notizia del 2021 in America Latina e a livello internazionale è stata l’elezione di Gabriel Boric, ex leader studentesco, come presidente del Cile. Boric ha vinto contro il candidato di estrema destra José Antonio Kast e nel mezzo di un processo costituente nato dalle richieste del movimento sociale del 2019. Cosa può insegnare il successo di Boric alla Colombia, dove quest’anno si voterà per scegliere il successore di Iván Duque? Nel suo podcast A fondo, la giornalista colombiana María Jimena Duzán ne discute con lo scrittore cileno Patricio Fernández.
     
  • Radio Ambulante (un podcast di giornalismo narrativo che ogni settimana racconta le storie dell’America Latina) ci porta in Brasile con la vicenda di Carlos Henrique Raposo, detto Kaiser. Tra gli anni ottanta e novanta il suo nome figurava nelle più importanti squadre di calcio brasiliane, come Botafogo, Flamengo e Vasco da Gama. La sua fama ha superato i confini nazionali fino a raggiungere l’Europa. Ma c’è un piccolo dettaglio: Kaiser non ha mai giocato neanche una partita. L’episodio, in spagnolo e con una traduzione in inglese, s’intitola Kaiser fútbol club.

Da leggere

  • La Companhia das Letras è forse il maggior gruppo editoriale brasiliano. Il suo fondatore si chiama Luiz Schwarcz, ha 66 anni ed è nato a São Paulo. Suo padre André era un ebreo ungherese che riuscì a scappare da un treno diretto in un campo di concentramento mentre il nonno andò incontro al destino di altri milioni di ebrei perseguitati. Schwarcz è nato e cresciuto a São Paulo in un ambiente culturale segnato dal nonno materno, tipografo e anche lui di origine ebrea, e nel 1986 fondò la sua casa editrice. In L’aria che mi manca, che Feltrinelli pubblica con la traduzione di Roberto Francavilla, Schwarcz racconta la storia della sua famiglia e della sua lunga depressione, che afferma avere origine nel senso di colpa: la colpa dei vivi nei confronti dei morti e il senso di colpa verso il padre, uomo silenzioso e sofferente. Il libro è una toccante confessione che non arretra davanti alla descrizione della malattia, e nello stesso tempo è un piccolo affresco, non così frequente nella letteratura brasiliana, dell’emigrazione ebraica in Brasile del secondo dopoguerra. Quella di Schwarcz è anche la storia di come il successo non metta in salvo dai fantasmi e di come la cura, forse, sia da cercare nel racconto e nella forza della sincerità. È il consiglio di lettura di Alberto Riva.

Su Internazionale

Sul sito

  • Un articolo dell’Afp sul disastro ambientale in Perù e le responsabilità dell’azienda spagnola Repsol.
     
  • Vita, successi e lotte di una leggenda del samba. Le vicende personali e la musica di Elza Soares raccontate da Daniele Cassandro. La cantante brasiliana è morta a Rio de Janeiro il 23 gennaio 2022, all’età di 91 anni.

Sul settimanale
 
  • Nel numero che è uscito oggi in edicola c’è un reportage del sito peruviano Sudaca dalle coste del Pacifico colpite dal disastro ambientale del 15 gennaio: pescatori e altri abitanti sono stati ingaggiati per pulire le spiagge dal petrolio con compensi bassi e poche tutele per la salute. E in apertura, una foto di Rodrigo Buendia della frana causata dall’alluvione a Quito, la capitale dell’Ecuador.
     
  • Nelle pagine di attualità del numero 1445 abbiamo pubblicato un articolo di Sylvia Colombo, corrispondente in America Latina della Folha de S.Paulo, sul nuovo governo presentato dal presidente cileno Gabriel Boric. E poi un reportage del Washington Post dalla Colombia, nel dipartimento di Meta, dove il ritardo del governo nel realizzare la riforma agraria sta creando conflitti tra le popolazioni native e i contadini.

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