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8 aprile 2022

Economica

La newsletter su economia e lavoro a cura di Alessandro Lubello

Jose A. Bernat Bacete, Getty Images

Una scelta morale
Dopo l’eccidio di civili commesso dalle truppe russe nella città ucraina di Buča, l’Unione europea prende in considerazione l’ipotesi di non comprare più combustibili dal Cremlino, come sanzione definitiva contro il regime di Vladimir Putin. Il 5 aprile la Commissione europea ha proposto nuove misure che, tra l’altro, colpiranno: le importazioni di carbone; le transazioni con quattro banche russe, tra cui la Vtb, la seconda del paese; il trasporto di merci via terra e mare; le esportazioni di macchinari e tecnologie avanzate, come i chip elettronici. Fuori discussione, per il momento, la sospensione degli acquisti di gas e petrolio, a cui si oppone soprattutto la Germania, che ha sviluppato una forte dipendenza energetica dalla Russia e teme gravi danni per la sua economia. Berlino, spiega il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, preferisce soluzioni alternative, come un conto fiduciario su cui depositare parte delle somme dovute per gli acquisti energetici, con l’impegno a liberarle quando la Russia andrà via dall’Ucraina; una tassa o una dazio doganale sul gas russo, con l’obiettivo di ridurre i consumi europei e allo stesso tempo le entrate del Cremlino.

Ma, come scrive il Financial Times, “l’Europa può scegliere di restare un complice finanziario dell’aggressione russa all’Ucraina oppure può farsi carico delle difficoltà legate alla rinuncia all’energia del Cremlino. Nessuna raffinata soluzione fiscale può tenerla lontana da questa scelta morale”. Questo nuovo pacchetto di sanzioni non impedirà all’Unione europea di continuare a finanziare la guerra di Putin, visto che è ancora restia a toccare il gas e il petrolio: secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, nel 2021 il 74 per cento delle esportazioni russe di gas naturale e più della metà di quelle di greggio sono andate a paesi europei dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Smettere di comprare il gas russo potrebbe mettere seriamente in difficoltà il Cremlino nel breve periodo, visto che, a differenza del greggio, questa materia prima è distribuita in gran parte attraverso infrastrutture fisse – i gasdotti – che non possono cambiare rapidamente destinazione. L’impatto economico sull’Europa, invece, potrebbe essere meno disastroso di quanto si crede: secondo uno studio di un gruppo di economisti tedeschi, per un paese come la Germania il calo del pil potrebbe variare dallo 0,3 al 3 per cento. Tuttavia, in un caso come quello dell’aggressione all’Ucraina, il dibattito sulla rinuncia all’energia russa non può essere guidato esclusivamente dai criteri economici ma, come ha scritto Martin Wolf sul Financial Times, sarebbe soprattutto “una dichiarazione collettiva in difesa dei valori su cui nel dopoguerra è stata fondata l’Europa contro il suo nemico più feroce”.

Il 7 aprile il parlamento europeo ha approvato una storica risoluzione che chiede l’embargo totale e immediato sulle importazioni dalla Russia di petrolio, carbone, combustibile nucleare e gas. In questa direzione è andata la Lituania, il cui governo il 2 aprile ha annunciato che non comprerà più gas russo. Nel 2015 la repubblica baltica riceveva il 100 per cento del suo gas dal Cremlino, ma subito dopo ha cominciato a ridurre la dipendenza: fino a due anni fa era al 60 per cento e adesso ha deciso di azzerare le importazioni. La Lituania ha avuto il merito di cominciare per tempo il ritiro dal gas russo, ma il suo è l’esempio da seguire. Soprattutto da parte dei paesi più importanti, in particolare la Germania. Come ha sottolineato il 6 aprile Guy Verhofstadt, eurodeputato liberale belga del gruppo RenewEurope, “da una Germania forte e democratica come quella emersa dalla seconda guerra mondiale mi aspetto la capacità di essere leader. Un leader che guidi con l’esempio, senza esitare”.

Stati Uniti

Il sindacato statunitense entra in Amazon
Il 1 aprile sono stati resi pubblici i risultati del referendum tenuto al magazzino Amazon di Staten Island, a New York, sulla formazione di una rappresentanza sindacale all’interno della struttura: 2.654 dipendenti hanno accettato di essere rappresentati dal sindacato Amazon labor union, mentre 2.131 lavoratori si sono espressi per il no. Avevano diritto al voto gli 8.300 dipendenti dell’unico magazzino che il colosso del commercio online gestisce a New York City.

Questa vittoria – a cui potrebbe presto aggiungersene un'altra, quando si concluderà la consultazione in corso nel magazzino di Bessemer, in Alabama – è a tutti gli effetti un risultato storico. Innanzitutto perché per la prima volta un’organizzazione sindacale entra in Amazon, azienda tradizionalmente ostile alle rappresentanze dei dipendenti e spesso accusata di imporre condizioni di lavoro troppo dure, stressanti e poco sicure. Ma questo non è l’unico motivo. Come spiega il New York Times, “la vittoria di Staten Island arriva in un momento di difficoltà per i sindacati statunitensi, che nel 2021 hanno registrato un calo degli iscritti fino al 10,3 per cento dei lavoratori, il dato più basso da decenni”, e sono accusati di non sapersi rinnovare e di scommettere spesso sulle cause sbagliate. Il risultato del 1 aprile “offre una grande opportunità per cambiare rotta”. Non a caso, come già successo nelle sei filiali della Starbucks a Buffalo, tutto è cominciato per iniziativa di un piccolo sindacato indipendente, totalmente estraneo alle grandi organizzazioni statunitensi. L’Amazon labor union è stata fondata da Christian Small, un ex dipendente dell’azienda di Jeff Bezos licenziato nel marzo del 2020 perché aveva organizzato una protesta contro le condizioni precarie di lavoro, aggravate dall’esplosione della pandemia. Quest’organizzazione, come molte altre sorte in tutti gli Stati Uniti e in diversi settori, si basano sul reclutamento porta a porta e su campagne che non riguardano semplicemente i salari e le condizioni di lavoro, ma includono discussioni sui diritti civili e i problemi dell’ambiente. A loro, sottolinea il Washington Post, ora guardano anche i leader dei grandi sindacati tradizionali come “chiave per il futuro del movimento dei lavoratori”.

Aziende

Elon Musk compra Twitter
Il 4 aprile Elon Musk, fondatore e amministratore delegato della casa automobilistica Tesla e dell’azienda aerospaziale SpaceX, ha rivelato che il 14 marzo ha comprato il 9 per cento delle azioni di Twitter, diventando il maggiore azionista del social network. Il giorno dopo è entrato nel consiglio d’amministrazione dell’azienda. Subito dopo l’annuncio le azioni del social network hanno registrato un aumento del 27 per cento, anche se si sa ancora poco delle intenzioni di Musk, che in passato ha criticato più volte Twitter, accusandolo tra l’altro di non garantire la libertà d’espressione. Alla fine di marzo, quindi già dopo l’acquisto delle azioni, Musk aveva dichiarato di voler lanciare un social network alternativo a Twitter. Poi ha aggiunto che il suo algoritmo dovrebbe essere accessibile a tutti.

Ma perché Musk ha investito in Twitter? Finora, scrive il Financial Times, i miliardari dell’alta tecnologia statunitense avevano usato la loro ricchezza per entrare nel mercato editoriale: Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, è proprietario del Washington Post, mentre nel 2018 Marc Benioff, fondatore del colosso del cloud computing Salesforce, ha comprato Time. Musk, invece, ha deciso di diventare socio di Twitter, che non è un prodotto editoriale. Il forte rialzo registrato dopo l’annuncio dell’investimento rappresenta più che altro la speranza che Musk riesca a porre rimedio ad alcuni problemi che si porta dietro da sempre il social network, come la lentezza nello sviluppare nuovi servizi e l’incapacità di ampliare il numero di utenti. Molti esperti sono convinti che “le competenze tecnologiche del manager e il suo ‘fiuto’ per i prodotti – unito al dinamismo che caratterizza le sue aziende – possano facilitare il cambiamento”. E forse già se ne vedono i risultati: il 5 aprile Twitter ha annunciato la prossima introduzione del pulsante “edit”, che permetterà agli utenti di cambiare i propri tweet, una funzione per cui Musk si batteva da tempo.

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Numeri

5

Chris Larsen, un imprenditore attivo nel settore delle criptovalute, ha donato cinque milioni di dollari per unirsi ad alcuni gruppi ambientalisti, tra cui Greenpeace, nel lancio di una campagna per ridurre i consumi d’energia legati all’uso del bitcoin. Change the code, not the climate vuole spingere la criptovaluta più diffusa ad abbandonare il metodo che usa attualmente per verificare le transazioni sulla sua rete. Un sistema che richiede quantità crescenti d’energia: circa 137 terawattora all’anno, ha calcolato il Cambridge Center for Alternative Finance, più di un paese come la Norvegia. “Alcuni esperti di tecnologie cripto”, scrive il Washington Post, “sostengono che passare a metodi alternativi potrebbe ridurre i consumi elettrici anche del 99,9 per cento”. Altri, però, sono scettici sulla riuscita della campagna. Per esempio Jerry Brito, direttore del gruppo di studio Coin center, secondo il quale il cambiamento richiesto significherebbe la chiusura per l’attività di decine di migliaia di persone che hanno investito in costosi strumenti per tenere in vita la rete attuale di bitcoin.

Spagna

Fragole illegali
Da molti anni la provincia andalusa di Huelva, in Spagna, inonda il mercato europeo con le sue fragole, che di solito annunciano la fine dell’inverno. “Huelva è considerata il frutteto d’Europa: l’80 per cento della sua produzione è destinata all’esportazione e garantisce ai coltivatori locali un buon reddito”, scrive la Neue Zürcher Zeitung. Questo affare milionario, tuttavia, è finito nell’occhio del ciclone da quando i consumatori europei hanno cominciato a occuparsi della sostenibilità delle coltivazioni in questa regione della Spagna. La causa scatenante, spiega il quotidiano svizzero, è stato il progetto del governo dell’Andalusia di regolarizzare 1.900 ettari di campi di fragole coltivati illegalmente. Questi terreni, infatti, sono irrigati sfruttando le acque del parco nazionale di Coto de Doñana, un’area naturale protetta. 

Il parco nazionale di Doñana, con le sue aree umide, è un rifugio per milioni di uccelli migratori, che arrivano dall’Europa settentrionale per svernare al sud. Negli ultimi anni sono aumentati i timori per gli equilibri ambientali del parco, da un lato a causa della siccità e dall’altro proprio per l’irrigazione illegale dei campi di fragole. Per questo, racconta El País23 aziende europee della grande distribuzione hanno inviato una lettera al presidente dell’Andalusia, Juan Manuel Moreno, invitando a fermare la legalizzazione dei 1.900 ettari di terreno. I coltivatori della provincia adesso temono per i loro affari, che subirebbero un duro colpo se queste aziende dovessero stracciare gli accordi per l’acquisto delle fragole. Tuttavia, pare che il governo conservatore dell’Andalusia sia deciso ad andare fino in fondo. “Il presidente Moreno”, conclude la Neue Zürcher Zeitung, “vuole presentarsi come l’uomo forte che non cede agli ambientalisti, in vista delle elezioni regionali previste per la fine del 2022. L’opposizione socialista non vuole essere da meno e ha deciso di astenersi, anche se da Madrid i vertici nazionali del partito hanno invitato a votare contro il provvedimento”.

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  • La Corea del Sud è da anni uno dei maggiori centri globali dell’innovazione tecnologica. E ora ha deciso di investire sulla realtà virtuale, considerata la prossima evoluzione di internet, scrive il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung.

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