|
Il 15 aprile 2012 andava in onda negli Stati Uniti la prima puntata della seminale serie HBO Girls, creata e interpretata da Lena Dunham: per celebrare il decennale di un prodotto cruciale nell’influenzare la rappresentazione del femminile negli anni a venire, vi riproponiamo il Serial Graffiti apparso su Film Tv n° 24/2020.
|
|
ehi, Girls!
Tutti odiano Lena Dunham. La odiano tanti spettatori adulti, che non ne capiscono scelte e atteggiamenti e ai quali oggi forse risponderemmo senza pietà «ok, boomer». La odiano molti suoi coetanei, cioè i millennial, quelli che non ci stanno a farsi rappresentare così, narcisisti, viziati e ignavi, e a sentirsi dire che proprio quest’antipatica tizia newyorkese è «la voce della loro generazione». La detestano gli spettatori non bianchi, perché Dunham fotografa una Manhattan di un candore quasi uniforme, e anche perché le ininterrotte lamentele e le futili traversie delle quattro protagoniste di Girls sono l’apoteosi dei white people problem. La odiano i maschilisti perché è orgogliosamente femminista, a partire dalla sfacciataggine inevitabilmente politica con cui esibisce in tutta la sua impenitente nudità un corpo non conforme alle regole dello schermo; e la odiano alcune femministe, perché il suo attivismo vagamente improvvisato incappa spesso in poco difendibili scivoloni. La odiano i giovani aspiranti artisti, che l’accusano di esser favorita dal nepotismo: classe 1986, figlia del pittore Carroll Dunham e della fotografa Laurie Simmons, sponsorizzata da Judd Apatow - che era rimasto impressionato dal suo lungo d’esordio Tiny Furniture, premiato agli Independent Spirit Awards -, nel 2011 a soli 25 anni Lena ottiene dalla prestigiosissima rete via cavo HBO il via libera per realizzare una serie tv a partire da quello che lei stessa definisce «il peggior pitch di sempre». Che era in realtà poco più di una paginetta, senza trama né personaggi, solo una via di mezzo tra un’infuocata filippica sulle “giovani d’oggi” (di allora) e l’accorata denuncia di un’invisibilità: «Sono bellissime e insopportabili. Sono iper-consapevoli ed egoriferite. Sono le vostre fidanzate, le vostre figlie, le vostre sorelle e le vostre impiegate. Sono le mie amiche, e non le ho mai viste in tv». È la stessa Dunham, all’inizio di quella paginetta, a rivendicare la discendenza di Girls da Sex and the City, qualcosa che poi il marketing utilizzerà per promuovere una serie obiettivamente diversissima da tutto quel che c’era attorno, in quel momento, in tv, fatta eccezione forse per Louie di Louis C.K., che sul canale concorrente FX negli stessi anni rivoluzionava il medium in modo simile e parallelo a Girls. Cioè sperimentando con le potenzialità, i limiti e le forme della comedy da mezz’ora a episodio, applicando alla tv i modi produttivi e stilistici del mumblecore, indagando protagonisti egocentrici e sgradevoli ricalcati sui rispettivi autori-attoricreatori, al punto da rendere quasi impossibile scindere la persona dal personaggio; e utilizzando una comicità straniante, critica e disperata, che prima fa ridere con l’imbarazzo di seconda mano e poi punge, e lascia l’amaro in bocca, rivelandosi quell’impietoso specchio scuro in cui noi spettatori non vorremmo vederci mai. Da Sex and the City, però, Dunham (con la co-showrunner Jenni Konner) voleva anche marcare una fondamentale differenza: sì, anche qui quattro ragazze cercano se stesse (e fanno molto sesso) a New York, ma al contrario di Carrie & Co. annaspano in un limbo esistenziale, sociale e storico allora inesplorato. In quella che col senno di poi (cioè oggi) è la rassegnata cifra della generazione millennial, ovvero una precarietà che dilaga a ogni livello del vivere, dalla quale non si scorgono vie di fuga, e quindi ci si ferma, immobili, incapaci di evolvere, ripetendo inesorabilmente le stesse scelte sbagliate. In realtà - dopo aver ispirato migliaia di articoli d’opinione sulle testate specializzate d’oltreoceano (e c’è chi sostiene che un certo commento tagliente e polemico all’intrattenimento sia nato proprio con Girls) - in sei stagioni le ragazze sono, effettivamente, cambiate, scivolando loro malgrado nell’età adulta: proprio come accade nella vita vera, questo non vuol dire necessariamente che siano cresciute, men che meno che si siano trasformate in persone migliori. Nel frattempo, però, la scrittura e la messa in scena di Dunham (ben più precise e raffinate, fin dall’inizio, di quanto tanta critica volesse concederle) hanno fatto scuola: piegando al proprio volere e ribaltando i cardini della commedia romantica (le feste, i matrimoni improvvisati, i gesti eclatanti, le grandi dichiarazioni, le rincorse appassionate: tutti dolorosamente smascherati dall’insincerità, dall’egoismo, dalla patetica ossessione del mettersi in scena), restituendo la fatica e la frustrazione al coming of age, liberandosi della necessità stringente di seguire una trama definita e così assecondando l’esperienza ondivaga e spiazzante delle protagoniste, confezionando praticamente in ogni stagione un episodio-gioiello a sé, acuminato, autosufficiente ed essenziale come i migliori cortometraggi (ricordiamo almeno il 2x05, One Man’s Trash; il 5x03, Japan, e il 6x03, American Bitch), rappresentando il sesso senza pudori o prurigini ma in tutto il suo imbarazzante, spesso disgustoso, quasi mai davvero soddisfacente realismo. Lo prova il fatto che Girls ha spalancato l’era della sadcom, le serie dal breve formato e dalla fortissima impronta autoriale che negli scorsi anni 10 sono state il territorio più libero e proficuo della tv: show come Please Like Me, Looking, Love, Insecure e I Love Dick, ma anche capolavori come Atlanta e Fleabag, e poi Transparent, Easy, One Mississippi, Master of None, BoJack Horseman, Ramy, Vida, High Maintenance, l’hipsterissima Search Party e le (ancora inspiegabilmente) inedite Broad City, Better Things e Shrill... Lena Dunham non sarà stata la voce della sua generazione, ma a quante voci, e di quante generazioni, ha finito, inaspettatamente, per aprire la strada!
ALICE CUCCHETTI
|
|
|
-
Torniamo su uno dei film che più abbiamo amato in questa stagione cinematografica, Spencer di Pablo Larraín, per proporvi la bella analisi di Daniela Brogi su Doppiozero, ricca di suggestioni.
-
È aperta e visitabile fino all’8 maggio Stanze - Sul custodire e il perdere, la prima mostra italiana interamente dedicata all’opera della grande cineasta Chantal Akerman. Curata da Rita Selvaggio, l’esposizione è alla Casa Masaccio - Centro per l’arte contemporanea di San Giovanni Valdarno (Arezzo).
-
La figura dell’indovino cieco come guida per un futuro che vada oltre il genere: da qui parte Tiresia, il nuovo podcast di Silvia Pelizzari dedicato alla letteratura queer. Otto episodi, uno ogni mercoledì, disponibili i primi cinque.
|
|
Ci vediamo la prossima settimana con Singolare, femminile! Se ci vuoi segnalare qualcosa oppure semplicemente lasciare un messaggio relativo a questa newsletter, puoi scriverci all'indirizzo info@filmtv.press. Ciao!
Se Singolare, femminile ti è piaciuta, inoltra la mail a qualcuno che possa essere interessato, è facile, ci si iscrive a questo indirizzo. Grazie!
|
|
|
|