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Singolare, femminile
lo schermo delle donne

- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole - 
#046 - Embrace the panda

Ciao <<Nome>>,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.

 

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Elogio di Red, ultimo gioiello animato di casa Pixar e primo lungometraggio dello studio diretto da una regista e realizzato da un team femminile. Un romanzo di formazione che sotto una trama all’apparenza semplice nasconde molti strati: l’autenticità dell’esperienza teenager, il conflitto familiare, una storia di seconde generazioni e un invito a fidarsi del proprio lato selvaggio.

È famosa, la Pixar, per l’effetto che fa alla maggioranza degli spettatori, soprattutto adulti in questo caso: che racconti la storia di un robottino abbandonato su un pianeta-discarica, la bizzarra vicenda di una casa volante e del suo anziano proprietario o l’ascesa di un topo di campagna all’empireo degli chef pluristellati, arriva sempre, presto o tardi, un momento in cui il cuore di chi guarda viene strappato dal petto e triturato con garbo fino a sollecitare una cascata di lacrime di rara commozione. Scommettiamo che più d’uno, ripensando alle note di Remember Me di Coco o al saluto di Bing Bong in Inside Out, sentirà un familiare e incontrollabile pizzicorino sotto le palpebre. È una formula che scorre integrata e parallela alla tecnica dello studio, che ha innovato l’animazione sovrapponendo due opposti: la tridimensionalità “tangibile” garantita dalla computer grafica e la possibilità, proprio attraverso la CGI, di dar spesso forma “solida” a qualcosa d’irrappresentabile. Un processo che esplicita il doppio senso del verbo “animare” (quello legato alla tecnica cinematografica e quello di “dare un’anima”) esemplificato, in modo letterale, dalla progressione dei titoli pixariani che parte dagli oggetti resi vivi del primo corto e del primo lungo (Luxo Junior e Toy Story), continua con automobili e robot senzienti (Cars, Wall•E) e arriva a sfiorare l’astrattismo filosofico rendendo protagoniste emozioni e spiritualità (Inside Out e Soul, dove si giunge a... “animare un’anima”). In tutto questo trovando quasi sempre un’universalità emotiva che riesce a toccare corde intime.

Red, l’ultimo lavoro sfornato dagli studi di Emeryville e distribuito direttamente in streaming su Disney+ (e ci sarebbe di che lamentarsi con la gigantesca Casa di Topolino, che ha scelto di negare la sala, causa pandemia, agli ultimi tre Pixar – Soul, Luca e, appunto, Red – mandandoli a rimpinguare il catalogo SVOD senza nemmeno il “prestigio” dell’accesso VIP), opera una sorta d’inatteso ribaltamento. Tra tutti i Pixar, potremmo dire, è il più realistico, nonostante contempli la trasformazione di una ragazzina in un gigantesco panda minore. Situato in una temporalità precisa, un 2002 ricostruito e sottolineato a più riprese – non solo per nostalgia, ma perché direttamente collegato all’autobiografismo della sua autrice e, soprattutto, perché essenziale alla trama –, ambientato in una città la cui riconoscibilità è altrettanto esibita – una tendenza esaltata anche da Soul con New York e da Luca con le Cinque Terre liguri –, rende materia di racconto una miniera di dettagli autentici e quotidiani, solitamente espunti dagli scenari idilliaco-fantastici dei lungometraggi animati: dal Tamagotchi agli assorbenti, Mei e le sue amiche esistono in un mondo vivido e autentico, anche nel senso di “banale” e “ordinario”. Di contro, lo stile d’animazione adottato dalla regista Domee Shi tenta una nuova sintesi, quella tra la tridimensionalità “fisica” della computer grafica e la bidimensionalità dell’anime giapponese (un’influenza confermata anche dalla svolta kaiju finale), recuperando da quest’ultimo la capacità di aumentare ed esagerare le espressioni e la percezione della realtà in relazione ai sentimenti e al punto di vista dei protagonisti. Una scelta che, di nuovo, oltre a legarsi alla biografia dell’autrice (Shi, classe 1989, ha formato il proprio stile d’animatrice guardando alla tradizione televisiva giapponese), è perfetta per rappresentare la verità quotidiana di una tredicenne travolta dalle difficoltà incontrollabili della crescita.

Tutto questo, a un primo impatto, ha forse l’effetto di far sembrare meno travolgente e rutilante il mondo di Red, meno “fantastico” o “inedito”, più vicino – come ha lamentato qualcuno – al piccolo che al grande schermo (ancora una volta, forse, la distribuzione in streaming non ha giovato, ma basta fare attenzione all’abbondanza di dettagli per cogliere la distanza da produzioni meno raffinate). Eppure è, naturalmente, soprattutto nei contenuti e nella drammaturgia che il film di Shi si rivela innovativo e sorprendente. Il titolo e la sinossi sono indizi grandi quanto un gigantesco panda, giusto per rimanere in tema: in originale Turning Red (“diventare rosso”), è la storia di come Mei, raggiunti i 13 anni, ogni volta che prova un’emozione intensa (rabbia, paura, angoscia, indignazione, ma anche tenerezza, gioia e – significativamente – eccitazione) si trasforma appunto in un grosso animale peloso, ingombrante, goffo e pure un po’ puzzolente. «È un film sulle mestruazioni», si potrebbe dire, e già di per sé sarebbe per questo una rarità nella produzione (non solo) per ragazzini (recentemente, ricordiamo, affrontava ottimamente il tema del menarca una puntata di Il club delle baby-sitter, intelligente serie per preadolescenti incomprensibilmente appena cancellata da Netflix dopo due stagioni di discreto successo). In realtà, con mossa doppia ed efficace, Red include esplicitamente le mestruazioni nel racconto, giustamente normalizzandole (la madre di Mei, Ming, sentendo le urla disperate della figlia in seguito alla trasformazione in panda, pensa che abbia avuto il primo ciclo e si fa trovare preparatissima, con una montagna di assorbenti e antidolorifici), e contemporaneamente insegue una metafora più grande: la metamorfosi di Mei corrisponde sì alla pubertà, ma è una pubertà che implica obbligatoriamente qualcos’altro, ovvero la definizione del sé e il conseguente distacco dall’alveo familiare. Un passaggio obbligato, il cuore e il punto di ogni coming of age, ma una transizione che è anche – è il caso di dirlo – dolorosa, faticosa, estremamente confusa, talvolta imbarazzante, spesso terrificante.

Il segno della dicotomia che contraddistingue il film – la doppia natura umana e bestiale di Mei, il conflitto/rispecchiamento tra Mei e Ming, la duplicità che Mei mette in atto quando inizia a mentire ai genitori, la contrapposizione tra famiglia e amiche... – si riverbera nel suo essere anche una storia di migrazione e seconde generazioni: l’inevitabile rottura del cordone ombelicale familiare, spesso violenta, è certo un’esperienza condivisa dalla maggioranza di noi, ma l’essere figlia di immigrati cinesi in Canada aggiunge alla crescita di Mei una sfumatura in più. Da un lato, l’esigenza di perfezione imposta, più o meno esplicitamente, dai sacrifici dei genitori e da un contesto bianco che verosimilmente si rivela spesso ostile; dall’altro, una frattura culturale che può allargarsi pericolosamente tra il tradizionalismo della famiglia e l’esperienza occidentale dei figli. Le seconde generazioni, si dice spesso, sono quelle la cui identità è sospesa, divisa in due tra il passato della terra d’origine e il futuro in quella d’accoglienza, tra il desiderio di conservare le proprie tradizioni e la necessità di assimilarsi al nuovo contesto: così allo scontro generazionale tra Mei e Ming si aggiunge un ulteriore livello di incomprensione, che nel finale trova un’audace, divertente e geniale ricomposizione in un’inaspettata saldatura musicale. Una ricomposizione che è presente, in realtà, più sottilmente, già in tutto il film anche nelle scelte cromatiche: il rosso del pelo e dei capelli di Mei è anche quello della bandiera cinese e della foglia d’acero al centro della bandiera del Canada (che compare diverse volte).

Di quel “realismo” che ha fatto storcere il naso a più di un critico e a diverse associazioni ultraconservatrici (ma, secondo quest’ultime, anche solo far riferimento al ciclo mestruale sarebbe deleterio per... delle giovani persone che stanno per avere le mestruazioni? Mah), fanno parte altri due elementi cruciali di Red, indissolubilmente collegati tra loro: il risveglio sessuale e il fandom. Mei e le sue amiche sono, come la maggioranza delle loro coetanee, ossessionate da una boyband, i fittizi 4*Town (mix perfetto tra NSYNC e Backstreet Boys creato da Billie Eilish e Finneas, e qui torna rilevante l’ambientazione nel 2002, per cogliere quella specifica cultura musicale; ma un decennio dopo avremmo potuto dire Justin Bieber o One Direction e oggi BTS), e nello stesso tempo iniziano ad avere le prime cotte reali, che si tratti di ragazzi più grandi (solo un filo meno irraggiungibili dei loro idoli pop) o di compagni di classe. Come sa chiunque ci sia passato, i primi ormoni non sono una bestia (!) semplice da addomesticare (sempre in animazione, lo spiega bene la serie per adulti Big Mouth): si manifestano nei modi più inspiegabili e nei momenti meno opportuni, e Red rende benissimo sia questo tipo di contraddittorio spaesamento, sia il fatto che la scoperta di sé e dei propri desideri passa molto spesso anche da un atto creativo. I disegni “proibiti” che Mei produce, come in trance, nascosta sotto il letto sono probabilmente il primo passo verso un mondo di fan art e fan fiction, che forse un giorno la ragazza ritroverà in una comunità di fan online e offline. E d’altro canto, mostra splendidamente il film, anche la passione per i 4*Town ha a che fare tanto con i primi desideri sentimental-sessuali, quanto – anzi, di più – con la condivisione con un gruppo di amiche e amici, con la formazione di una “famiglia” elettiva. E, ce lo spiegava bene Lucia Tralli nella newsletter n. 28, «è profondamente politico avere la possibilità per un gruppo di ragazze o donne di stare insieme e gioire insieme dei propri consumi culturali, delle proprie letture, delle proprie personagge preferite, delle proprie esplorazioni erotiche e sessuali, delle proprie fantasie», condividere «quello che nel fandom si chiama squee, cioè la gioia», una gioia «piena di possibilità».

«My panda, my choice» afferma alla fine, con determinazione, Mei decidendo di “tenersi il suo panda”, rievocando uno dei più celebri slogan femministi e imboccando una strada – diventare grande senza rinunciare a se stessa, un ambivalente superpotere – che si preannuncia insieme avventurosa, contraddittoria e molto complicata. Il conflitto, lo strappo doloroso con la madre non può ricomporsi del tutto (ricordate il dolceamaro finale di Inside Out?), come testimonia la scelta conclusiva delle due, opposta e speculare: Mei è ora definitivamente qualcosa di diverso da Ming, di “separato”, di autonomo. Ma questo significa finalmente che – in aperta contrapposizione al violento scontro nell’arena, in cui anche figurativamente il combattimento tra la gigantesca mamma kaiju e la piccola panda Mei simboleggia l’immane squilibrio di potere tra adulti e bambini, e il frequente senso di impotenza, e anche di rabbia, di questi ultimi – le due possono guadagnare un meraviglioso reciproco riconoscimento e una nuova salvifica parità: (in un’inaspettata eco di Petite maman) Mei trova nel bosco la mamma alla sua stessa età, preadolescente e spaventata, le prende la mano e la guida con sicurezza fino alla radura, e al futuro. Quasi ad anticipare le sconcertanti proteste di chi s’è scagliato contro Red ritenendolo “diseducativo”. Nessun film è obbligato alla didattica, ma se proprio vogliamo che Red sia educativo, che lo sia per gli adulti, e che ci insegni questo: a ribaltare anche la più ancestrale delle gerarchie, ad affidarci al potere della ribellione infantile, ad abbracciare e tenerci stretto il nostro panda. ALICE CUCCHETTI

Prima di Red, l’unico altro lungometraggio Pixar co-diretto da una regista (allontanatasi, però, durante la lavorazione, per divergenze creative) è stato Ribelle – The Brave di Brenda Chapman, Mark Andrews e Steve Purcell. Un film che, per molti aspetti, dialoga intensamente con Red, costruito com’è su un rapporto conflittuale tra madre e figlia e sul topos della metamorfosi animalesca. Vi riproponiamo la recensione, pubblicata su Film Tv n. 35/2012.


Ribelle - The Brave

 

La riccia Merida potrebbe essere la prima eroina Pixar a entrare a far parte del merchandising ufficiale (quasi una massoneria) delle Principesse Disney. Speriamo di cuore che non passi i test d’ammissione, perché la scozzese ribelle è fatta di tutt'altra pasta. Il principe azzurro non le interessa, convolare a nozze è l'ultimo dei suoi obiettivi. Anzi, quando scopre che la regola per i pretendenti al trono recita «chiunque vinca la competizione può chiedere la mano della principessa», Merida ha un'idea rivoluzionaria e scandalosa: parteciperà alla gara di tiro con l’arco, la vincerà e chiederà la sua stessa mano. Come a dire: mi basto da sola, grazie. Una dichiarazione d’indipendenza ed emancipazione che spazza via decenni di svenevoli figlie di re, devote a monocordi eredi al trono e impegnate a diventare perfetti angeli del focolare. Una testa matta, Merida, sia per l'incredibile massa di boccoli fulvi che la ricopre (la cui animazione, stupefacente, ha richiesto alla Pixar buona parte dei sei anni di lavorazione del film), sia per le idee che ci frullano dentro. Non tutte geniali: perché se vincere la propria mano non basta a persuadere la madre cocciutamente tradizionalista, la giovane battagliera decide di chiedere aiuto agli incantesimi di una fattucchiera, ed è lì che cominciano i guai… È paradossale che Ribelle – The Brave, abitato da uno dei personaggi, sulla carta, più anticonvenzionali del cinema d’animazione recente, finisca per essere uno dei più convenzionali Pixar di sempre. Oltre l’eccellenza per quanto riguarda l’aspetto grafico, il tredicesimo lungometraggio dei geni della lampadina manca di quell’inconfondibile Pixar Touch cui siamo abituati da quasi 20 anni: narrativamente solido e ben costruito, intelligente nel delineare il complesso rapporto di aspettative reciproche che lega madre e figlia, l’opera si abbandona presto ai tradizionali binari disneyani fra lacrima e risata (a causa dell’imprevista svolta nella trama, si replica in parte il buddy movie di Le follie dell'imperatore), risolvendosi in un’avventura meno frizzante delle premesse. Complice forse il cambio di timone dell’operazione (la regista Brenda Chapman ha abbandonato la Pixar per divergenze creative ed è stata rimpiazzata da Mark Andrews in corso d'opera), Ribelle – The Brave ha un carattere molto più mite e docile della sua protagonista.

ILARIA FEOLE

 
  • Jessica Bruder, autrice del romanzo non fiction Nomadland (edito in Italia da Clichy) da cui l’omonimo film premio Oscar di Chloé Zhao, ha pubblicato sull’“Atlantic” il reportage The Abortion Underground: con la destra che da anni porta avanti una battaglia serrata contro le interruzioni volontarie di gravidanza e con la storica sentenza Roe v Wade in probabile via di smantellamento da una corte suprema a maggioranza antiabortista, le donne degli Stati Uniti si stanno riorganizzando clandestinamente, a volte anche illegalmente, per portare aiuto a chi desidera abortire. In uno scenario che assume i contorni inquietanti di uno sprofondamento indietro nel tempo e, insieme, di una distopia. [in inglese]
     
  • È stato presentato ieri a Milano l’annuale Diversity Media Report realizzato da Diversity con l’Osservatorio di Pavia, rivelando nel panorama televisivo italiano un soffocante immobilismo, soprattutto nel settore giornalistico, in cui i criteri di notiziabilità e i modi espressivi relativi a donne e persone marginalizzate continuano a perpetuare inaccettabili stereotipi. Un po’ più roseo il panorama dell’intrattenimento, che vede crescere i programmi attenti all’inclusività e l’approccio narrativo intersezionale. Insieme al Report sono state presentate le nomination ai Diversity Media Awards 2022: entrambi si possono consultare qui, dove si può anche votare. La cerimonia quest’anno approda su Rai1 il 28 maggio, condotta da Michela Giraud, M¥SS KETA e Diego Passoni.
     
  • Se approfittando dei ponti primaverili state progettando di visitare qualche città d’arte italiana, segnaliamo che a Torino è in corso, fino al 26 giugno, la mostra Vivian Maier inedita, ai Musei Reali. Restando in città, potete andare al cinema: in sala c’è La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal, tratto da Elena Ferrante, e questa settimana arrivano Ali & Ava di Clio Barnard, Storia di mia moglie di Ildikó Enyedi e il doc Bella ciao di Giulia Giapponesi (riguardo a questi ultimi tre titoli, sul numero di Film Tv in edicola trovate interviste alle tre registe). Sul piccolo schermo, invece, venerdì 15 arriva su Apple Tv+ Roar, la nuova serie antologica delle autrici di GLOW, Liz Flahive e Carly Mensch. Riparleremo presto di alcuni tra questi titoli.
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