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Non si possono obbligare gli insegnanti a fare i test sierologici 

Da quando è iniziata la pandemia sembra che, dal punto di vista del diritto, valga ormai tutto. Ma non è così: per costringere lavoratori a svolgere accertamenti diagnostici serve una base giuridica che lo consenta.

Vitalba Azzollini
31 agosto 2020
  • Il personale scolastico non può essere obbligato a effettuare indagini diagnostiche per verificare il contagio da coronavirus se ciò non è previsto da una norma. Tali indagini possono essere proposte dal medico competente nell’ambito della “sorveglianza sanitaria”.
     
  • Una norma del decreto Rilancio ha previsto la “sorveglianza sanitaria eccezionale” in considerazione dell’età, alternativamente a particolari patologie: ciò potrebbe indurre docenti (e non) più avanti negli anni a richiederla. Il medico, in ultima istanza, potrebbe disporre l’esenzione dal lavoro nelle aule, con conseguenti problemi di carenza di personale alla riapertura delle scuole.
     
  • Per correre ai ripari, si sta pensando a una circolare che escluda l’età come elemento in base a cui richiedere la “sorveglianza sanitaria eccezionale”, ma consenta quest’ultima solo se il soggetto presenti anche altre patologie. Così, oltre al problema delle responsabilità giuridiche in caso di contagio di personale di età elevata, in punta di diritto si porrebbe il tema di un atto amministrativo che deroga a una norma di legge. 
(Foto  LaPresse)
Vitalba Azzollini è una giurista che lavora presso un'autorità indipendente.
Nei giorni scorsi, siti di informazione e social network hanno divulgato la notizia secondo cui un terzo degli insegnanti si sarebbe rifiutato di sottoporsi a test sierologici, ai fini della riapertura in sicurezza delle scuole, nell’ambito del programma di screening previsto dal 24 agosto al 7 settembre. La notizia, poi rivelatasi non fondata, in quanto riferita a un campione non rappresentativo, ha indotto molti a chiedersi se non si potesse obbligare il personale scolastico a effettuare l’accertamento richiesto e, più in generale, se indagini sanitarie per verificare l’infezione da Covid-19 possano essere imposte nell’ambito delle misure a tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro.
 
Si anticipa la risposta, poi se ne darà la motivazione: i lavoratori non possono essere assoggettati ad accertamenti diagnostici a discrezione del datore di lavoro, ma serve una base giuridica che lo consenta. Non è sufficiente, infatti, la disposizione del codice civile, contenuta nell'articolo 2087, secondo cui il datore deve adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro; né bastano le previsioni del testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. 81/2008) secondo cui egli deve valutare tutti i rischi cui sono esposti i lavoratori. Queste norme non legittimano pretese datoriali di ogni tipo di verifica diagnostica. Controlli specifici possono essere disposti solo nell’ambito della “sorveglianza sanitaria” che, ai sensi del citato testo unico, è l’insieme di atti medici “finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all'ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa”.

E nemmeno la sorveglianza sanitaria è discrezionale, poiché è svolta dal “medico competente” (che collabora con il datore di lavoro “ai fini della valutazione dei rischi”) esclusivamente: “a) nei casi previsti dalla normativa vigente (…); b) qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi”. Il protocollo fra governo e parti sociali del 24 aprile scorso (da ultimo, allegato al Dpcm 7 agosto 2020), in tema di contrasto al Covid-19, ha aggiunto che il medico competente può “suggerire l’adozione di eventuali mezzi diagnostici qualora ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori” (e anche in questo caso la sottoposizione al test resta volontaria, come precisato, ad esempio, dal decreto della giunta della regione Lombardia n. XI/3131 del 12 maggio 2020).
 
Dunque, test sierologici o di altro tipo devono essere prescritti da specifiche disposizioni o ritenuti necessari dal medico competente. E ciò è pure intuitivo: se il datore di lavoro fosse libero di imporre qualunque controllo sui lavoratori, ciò potrebbe dare luogo ad abusi. Ad esempio, con riferimento alla privacy. E su tale profilo è intervenuto il Garante che, già all’inizio di marzo, quando sul coronavirus regnava molta confusione, aveva comunque invitato a non “effettuare iniziative autonome che prevedano la raccolta di dati anche sulla salute di utenti e lavoratori che non siano normativamente previste o disposte dagli organi competenti”.

A maggio, poi, con specifico riferimento ai “test sierologici sul posto di lavoro”, il Garante ha precisato che il datore di lavoro “può richiedere ai propri dipendenti” di effettuarli “solo se disposto dal medico competente o da altro professionista sanitario in base alle norme relative all'emergenza epidemiologica. Solo il medico del lavoro infatti, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, può stabilire la necessità di particolari esami clinici e biologici. E (…) suggerire l’adozione di mezzi diagnostici, quando li ritenga utili al fine del contenimento della diffusione del virus”. Dunque, il Garante ha ribadito quanto previsto dalla disciplina su salute e sicurezza.
 
Pertanto, chi vuole che i test sierologici siano obbligatori per il personale scolastico pretenda l’emanazione di una norma che li prescriva come tali; se vuole che il rischio di contagio a scuola sia ancor più ridotto, pretenda un’altra norma che assoggetti ad accertamenti pure gli studenti; e se davvero vuole che le cose siano fatte in conformità a quanto dicono gli esperti, pretenda pure che le verifiche per gli uni e gli altri siano ripetute, e non limitate solo all’inizio dell’anno.
 
Posto che il datore di lavoro – pubblico o privato – non può imporre accertamenti a piacimento, serve fare un passo ulteriore. Perché, al di là del rischio sanitario, c’è un altro rischio che si corre in vista della riapertura delle scuole, e il tema è connesso a quello precedente: vale a dire l’eventualità che non vi sia personale – docente e non – in numero sufficiente.

Per comprendere la situazione, bisogna partire da una disposizione introdotta dal cosiddetto decreto Rilancio (convertito in legge n. 77/2020, art. 83), la quale prevede che, fino al termine dello stato di emergenza, “i datori di lavoro pubblici e privati assicurano la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente esposti a rischio di  contagio, in ragione dell'età o della condizione di rischio  derivante da immunodepressione, anche da patologia Covid-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o comunque da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità”.

Dunque, i dipendenti della scuola i quali reputano di rientrare nei casi indicati in tale disposizione possono chiedere al dirigente scolastico di essere sottoposti a una visita straordinaria da parte del medico competente, che darà il giudizio sulla loro idoneità al lavoro. Quest’ultimo potrà ritenere il lavoratore idoneo oppure prescrivere per lui un regime speciale: da particolari forme di tutela per ridurre il rischio di contagio (ad esempio, l’uso di dispositivi di protezione analoghi a quelli adottati dal personale sanitario) all’astensione da particolari mansioni o dal lavoro in presenza, in quanto soggetto a rischio.
 
Attenzione, secondo la norma del decreto Rilancio, questo regime speciale potrà essere disposto non solo in presenza di patologie particolari, ma anche esclusivamente “in ragione dell’età”: le condizioni sono indicate dalla norma in modo alternativo.

Qual è l’età che potrebbe ritenersi a rischio in caso di contagio?

La norma non la precisa, ma per individuarla può ricorrersi a un’ulteriore tessera del complesso puzzle della disciplina anti-Covid: il “documento tecnico” dell’Inail, datato aprile 2020, ove si parla di “maggiore fragilità nelle fasce di età più elevate della popolazione” e si auspica una “sorveglianza sanitaria eccezionale” sui “lavoratori con età >55 anni”.

Ecco, ora il quadro è completo per comprendere cosa potrebbe accadere in vista della riapertura delle scuole: la richiesta da parte del personale, in forza di patologie preesistenti o, semplicemente, perché aventi “una certa età” di essere sottoposti a “sorveglianza sanitaria eccezionale”, con ciò che ne potrebbe derivare: l’esonero dal lavoro in presenza. E la portata di ciò che potrebbe conseguire è più chiara se si considera che, in base al report dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) Education at a Glance del 2019, in Italia gli insegnanti con un’età maggiore di 50 anni sono il 59 per cento, percentuale più alta fra i paesi Ocse.
 
Forse proprio in previsione degli effetti ipotizzati, nelle Indicazioni operative per la gestione di casi e focolai di Sars-CoV-2 nelle scuole e nei servizi educativi dell’infanzia del 21 agosto scorso, con specifico riguardo alla “maggiore fragilità”, si parla di età elevata come elemento rilevante “in presenza di alcune tipologie di malattie cronico degenerative (…) o in presenza di patologie a carico del sistema immunitario o quelle oncologiche”. E sempre al fine di evitare che troppi insegnanti possano chiedere la “sorveglianza sanitaria eccezionale” in funzione dell’età, come sancito dalla norma del decreto Rilancio, pare che il Comitato tecnico scientifico (Cts) stia elaborando un documento al fine di escludere che tale sorveglianza possa essere disposta solo per l’età, consentendola in concomitanza con patologie importanti o con la cosiddetta “comorbilità”, cioè la presenza di più malattie. Premesso che in caso di contagio di un ultra-cinquantacinquenne escluso da tutela medica, nonostante la norma del decreto Rilancio, si porrebbero dubbi circa la relativa responsabilità giuridica, il problema in punto di diritto è anche un altro: “indicazioni operative” o eventuali circolari basate sul parere del Cts possono derogare a una norma di legge che prevede espressamente la “sorveglianza sanitaria eccezionale” per lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio “in ragione dell’età” alternativamente alle altre condizioni ivi indicate? Se ne dubita molto, se la gerarchia delle fonti non è un’opinione. Ma, da quando è iniziata la pandemia, in diritto sembra che ormai valga tutto.
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