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I Verdi non sono cocomeri

I Verdi italiani sono stati capaci di incidere su politiche e governi, ora sono fuori dal parlamento ma le nuove sensibilità sui temi ambientalisti offrono un'occasione irripetibile

Silvia Zamboni e Paolo Galletti
7 settembre 2020
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  • Non è vero che i Verdi italiani sono schiacciati a sinistra (verdi fuori e rossi dentro come cocomeri) o incapaci di avere un vero peso politico.  I Verdi sono stati co-fondatori dell'Ulivo insieme ai Popolari e al Pds, nonché prima formazione verde in Europa a entrare in un governo nazionale: quello di centrosinistra guidato da Romano Prodi.
     
  • Proprio la rottura con i partiti del centrosinistra li ha esclusi dal parlamento, hanno perso identità e capacità attrattiva anche per colpa di gruppi territoriali scalabili con qualche pacchetto di tessere.
     
  • Oggi i Verdi sono comunque l'unico partito membro dello European Green Party e i tentativi di fondare forze politiche concorrenti o di assorbire i temi ambientalisti dentro altri partiti come il Pd sono falliti. La partita per dare un futuro ai Verdi è tutta aperta.
Silvia Zamboni è capogruppo di Europa Verde e vicepresidente dell'Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna. Paolo Galletti è co-portavoce della federazione dei Verdi dell’Emilia-Romagna, ex deputato verde. Intervengono qui in risposta all'articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante "La sindrome del cocomero che condanna i Verdi italiani" che ha aperto un vivace dibattito.

"Verdi italiani come i cocomeri: verdi fuori e rossi dentro?" Dalla soffitta della retorica d'antan un articolo di Francesco Ferrante e Roberto della Seta, pubblicato su Domani, ha rispolverato questa desueta metafora, niente meno che di Giulio Andreotti, per imbastire un'analisi dei Verdi italiani priva di ogni verità storica. E diametralmente opposta all'altra rappresentazione caricaturale dei Verdi oggi in voga che, al contrario, li ritiene "solo" verdi dentro e fuori, e privi dell'anima "rossa" sociale. Due letture evidentemente vittime di opposti daltonismi.  
 
Liberando gli occhi dalle lenti deformanti del daltonismo, la lettura della storia dei Verdi ci restituisce un partito alleato, nel 1994, dei progressisti, e nel 1996 co-fondatore dell'Ulivo insieme ai Popolari e al Pds, nonché prima formazione verde in Europa a entrare in un governo nazionale: quello di centrosinistra guidato da Romano Prodi. Altro, quindi, che partitino-cocomero di estrema sinistra. Altro che partitino monotematico ambientalista privo di ambizioni e obiettivi riformisti sociali.
 
Ed è grazie ai Verdi dell'Ulivo se nel febbraio 1997 con il ministro verde dell'Ambiente, Edo Ronchi, è arrivata la prima riforma nel settore dei rifiuti (nota, appunto, come decreto Ronchi), solo per citare un provvedimento che ancora oggi funziona tramite l'attività dei vari consorzi per la raccolta differenziata di filiera. Ed è sempre grazie ai parlamentari Verdi se sono arrivate le prime leggi a sostegno delle energie rinnovabili e dell'efficienza energetica, la legge per l'istituzione dei parchi, quella per vietare l'impiego dell'amianto, quelle per promuovere la mobilità ciclistica e l'agricoltura biologica, quella per contrastare l'inquinamento elettro-magnetico, quella sul commercio di armi, solo per citarne alcune.
 
Tutto bene, dunque? No, se c'è una cosa che ha nuociuto ai Verdi è stata proprio la scelta di abbandonare l'Ulivo e di promuovere la perdente alleanza con Fausto Bertinotti (Rifondazione comunista) e Oliviero Diliberto (PdCI) che li ha esclusi dal parlamento. Una scelta che, aggravata dall'indebolimento dei gruppi territoriali resi scalabili, in alcuni casi, tramite irrisori pacchetti di tessere da parte di intraprendenti avventurieri locali, li ha portati a perdere identità, rappresentatività e appeal.
 
Nati dalla cultura ecologista formatasi e diffusa dalle Università Verdi; dalle prime esperienze delle liste verdi di Ancona, Monza, Lugo, Pescara; dall'esperienza del Trentino-Alto Adige della nuova sinistra evoluta in verde; associando storici esponenti del movimento antinucleare come Massimo Scalia e Gianni Mattioli, i Verdi - oltre che dalla lotta ai pesticidi, al nucleare, alla caccia e per i diritti animali - sono cresciuti nutriti dalle varie battaglie ecologiste locali, come lo erano stati i Grünen (i Verdi tedeschi) dalle Bürgerinitiativen (comitati e iniziative civiche locali). Perdere questo radicamento diffuso li ha indeboliti anche a livello nazionale. La mancanza di un identitario progetto politico ha fatto il resto, come testimoniano gli scarsi risultati raggiunti nell'ultimo decennio.
 
Pensare globalmente, agire localmente è quindi il mantra da riprendere oggi come stella polare dell'agire politico dei Verdi, al di là del politicismo di corto respiro, delle alleanze forzate spersonalizzanti e delle ambizioni personali non suffragate dalle competenze. Competenze oggi più che mai fondamentali per affrontare le sfide contemporanee: emergenza climatica, crisi ambientale, aumento della forbice delle disuguaglianze sociali, mancanza di prospettive per intere generazioni di giovani.
 
Pur scontando tutti questi problemi, oggi i Verdi sono l'unico partito italiano cofondatore e membro del Partito dei verdi europei, lo European Green Party, un legame che va tradotto in solida pratica politica. Del resto, tentativi vari di fondare in Italia una nuova forza politica dichiaratamente ambientalista non sono stati in grado di creare un soggetto politico vincente sostitutivo dei Verdi: ci riferiamo in particolare al progetto degli Ecologisti democratici (in sigla ecodem) dentro il Pd guidato da Walter Veltroni e a Green Italia (il partito di ispirazione ambientalista fondato nel 2013 con il contributo anche di Francesco Ferrante e Roberto della Seta). Sul primo parlano le critiche esplicite alla dirigenza Pd da parte di uno degli storici promotori ecodem, Ermete Realacci. Sul secondo l'inessenzialità dei risultati ottenuti: politici ed elettorali. Il fallimento di Sel (Sinistra ecologia libertà) completa il quadro. Italia dunque destinata a restare senza un partito verde di spessore e consensi europei?

La partita è aperta. Il risultato dipenderà in gran parte dall'esito dell'operazione in corso, lanciata dalla Federazione dei Verdi, di creare un nuovo soggetto ecologista: Europa verde, che in Emilia-Romagna, per esempio, grazie al risultato conseguito alle elezioni regionali di gennaio, è rientrato nell'Assemblea legislativa.

A sua volta la credibilità di questo processo dipenderà dalla capacità di essere davvero inclusivi, dal saper riconoscere, accogliere e valorizzare soggetti competenti, invece di difendere acquisite posizioni di potere personale. Va da sé che si tratta di un esercizio psicologicamente, prima ancora che politicamente, impegnativo, da condurre entro la cornice di un solido progetto politico. Evitando la trappola delle sommatorie di ceto politico e valorizzando, invece, esperienze di vertenze territoriali e di movimenti in ambito sociale, ambientale, culturale e della green economy. Consapevoli che non c'è più tempo da perdere. E che giustizia ambientale e climatica non possono che associarsi alla giustizia sociale, ad un'economia non predatrice, come ci ricorda l'enciclica Laudato si' di Papa Francesco del 2015. Il debito ecologico che stiamo caricando sulle spalle delle giovani generazioni è l'altra faccia del debito pubblico che gli abbiamo già caricato a partire dagli anni scorsi.

I Verdi italiani sono il partito che fin dalla sua nascita ha sostenuto per primo le scelte in economia, energie rinnovabili ed efficienza energetica, agricoltura, mobilità, tutela del clima e dell'ambiente naturale, sanità (leggi l'importanza assegnata alla prevenzione e alla medicina del territorio), ecopacifismo e diritti lgbt in grado di costruire una società capace di futuro. Riprendiamo in mano questa idea di futuro e mettiamoci con senso di responsabilità al suo servizio.

Se non ora, quando?

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