La colpa degli esordienti
di Corinna De Cesare
Due fratelli cresciuti tra Anzio, Nettuno e Lavinio finiscono la stesura di una sceneggiatura e se la mandano sulle rispettive mail, «casomai fosse esploso il computer». Capiscono rapidamente che non c'è rischio di perdere nulla perché nei due anni successivi il copione gira la casella mail e spam di ogni casa di produzione cinematografica. La risposta, quando arriva, è sempre la stessa: «non siamo interessati».
Qualcuno entra maggiormente nel merito:
«Il film è illeggibile»
«Che infanzia avete avuto?»
«Il copione è scritto in un italiano incomprensibile».
Dodici anni dopo non solo quel copione diventa un film di successo ma i fratelli D'Innocenzo vincono l'orso d'argento come migliore sceneggiatura al Berlinale 2020, il festival considerato il tempio della cinematografia internazionale, il principale punto di incontro fra le produzioni europee, asiatiche, hollywoodiane. In oltre settant’anni di Festival di Berlino la statuetta era stata consegnata solo sei volte a un regista italiano: Michelangelo Antonioni, Gian Luigi Polidoro, Vittorio De Sica, Pier Paolo Pasolini, Marco Ferreri, i fratelli Taviani e Gianfranco Rosi.
Ma la storia dei fratelli D'Innocenzo, raccontata da loro stessi su Instagram, può essere applicata a centinaia di altri film, libri, autori, persone la cui colpa principale è una sola: essere esordienti, peggio ancora se outsider. Perché seppure i due avevano già girato un film prima di "Favolacce", erano di fatto due giovani agli inizi della carriera che volevano proporre al pubblico qualcosa di nuovo, disturbante (io non ci ho dormito per due giorni, per dire). Un peccato imperdonabile in Italia, dove non soltanto non si riconoscono i talenti ma quand'anche si riconoscono si ostacolano fino all'ultimo, salvo poi osannarli in caso di successo. Fa eccezione Chiara Ferragni, ancora oggi sminuita e presa in giro da un'ampia platea di radical chic a cui si è sottratto di recente Silvio Berlusconi che si è complimentato con lei per l'Ambrogino d'oro definendola "dottoressa". Il punto però è un altro. Settimane fa sono rimasta immobile davanti alla tv a guardare le immagini di repertorio per la morte dell'inviato Rai Pino Scaccia. Insieme a lui, si intravedevano i volti e i nomi che hanno fatto la storia del giornalismo televisivo degli ultimi 40 anni. Facce con cui sono cresciuta e con cui probabilmente crescerà anche mia figlia, 4 anni nell'annus horribilis 2020. Perché qualsiasi lavoro si faccia oggi e in qualsiasi settore si è impegnati, abbiamo tutti la stessa identica sensazione di trovarci di fronte a  "Il cantiere della sinistra", il recente convegno online organizzato da Italianieuropei, dove il massimo dell'avanguardia è rappresentata da D'Alema e Renzi nella stessa schermata di Zoom. Finisce così che nei talkshow vediamo sempre le stesse facce, nei film gli stessi attori, al cinema gli stessi film con il telefono di bachelite fisso alla parete (e infatti sempre santo subito Netflix). La cosa poi più imperdonabile per me è osservare questi personaggi che hanno fatto carriera, cambiato status sociale e vita, che hanno frequentato salotti più o meno mondani e avuto nella vita anche discrete soddisfazioni, continuare a osservare il mondo solo dall'altezza del loro ombelico. Continuano a spingere ma solo per se stessi. Maestri come Sergio Leone, che si mise a produrre i primi due film di un semisconosciuto trentenne Carlo Verdone, non se ne vedono più. E per risalire ai più recenti casi di pigmalione bisogna forse guardare ai miti classici. La dinamica di X Factor, quella di quattro artisti di successo che mettono a disposizione competenze, abilità, saperi per un gruppo di esordienti sconosciuti su cui investono tempo, risorse, energie, nella vita reale non esiste. O a parte rare eccezioni fatica a diventare una pratica diffusa, una consuetudine. Ovviamente non è un vizio esclusivamente italianoEimear McBride ha impiegato nove anni a far pubblicare il suo primo romanzo e quando ci è riuscita ha ottenuto il Premio Baileys Women per la narrativa nel cui albo d'oro figurano scrittrici come Zadie Smith. Si dirà che le bocciature letterarie sono famose e trasversali a tutte le epoche, da Moby Dick a La Campana di vetro, ma oggi, in questo momento storico, quello nei confronti dei giovani è un vero e proprio accanimento terapeutico. Quando nel 2013, giovane lo ero anche io e iniziai a proporre alle case editrici le prime pagine del mio romanzo, cominciai a ricevere tanti elogi ma anche altrettanti dinieghi. Il motivo principale? Il romanzo aveva dei difetti. Impensabile per un'esordiente no? Tra pochi mesi, dopo otto anni di sacrifici, sveglie all'alba, vacanze trascorse con il computer sulle cosce, cocciutaggine e una sana dosa di follia, il mio primo romanzo sarà pubblicato da Salani. Se avrà l'esito felice dei casi sopracitati non lo so, ma eccome se ci spero cazzo! E lo spero per le McBride sparse in giro per il mondo e per i vari D'Innocenzo che invece, dopo dodici anni di tentativi e porte sbattute in faccia, hanno mollato e hanno continuato a fare la loro vita tra Anzio, Nettuno e Lavinio. Io nel frattempo cerco di fare tutto il contrario di quello che è accaduto a me e provo spesso, in questa newsletter, a proporvi voci nuove come in questo numero. Convinta al 100% che Paolo Rossi avesse ragione: «anche uno normale può farcela. Non ero un fenomeno atletico, non ero neanche un fuoriclasse, ma ero uno che ha messo le sue qualità al servizio della volontà. Mi pare un buon messaggio, non solo nello sport». 
L'autrice
Corinna De Cesare, 38 anni, è giornalista del Corriere della Sera. Ha seguito per il quotidiano di via Solferino la crisi greca e le elezioni europee. Scrive ora principalmente di donne, lavoro, pari opportunità. Fondatrice di thePeriod, nel 2021 uscirà il suo primo romanzo con Salani.
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Ci avete scritto in duecento per consultare l'archivio theP. Qui i mille giorni di te e di me alla voce "past issues"
Io sono
di Roberta Cavaglià
La mia vicina di casa è in cassa integrazione e si è lasciata con il compagno ma non è stata lei a dirmelo. O meglio, io non ero la sua vera interlocutrice: l’ho sentita mentre parlava al cellulare. Tuttavia io, e credo molti altri abitanti della nostra via, sappiamo più della sua vita privata di quanto vorremmo effettivamente sapere. Non credo che lo faccia di proposito, per esibizionismo o per risparmiarsi la fatica di fare annunci ad personam. Credo semplicemente che le piaccia passeggiare con il cane nel parco del quartiere e parlare al telefono in libertà, finalmente lontana da una di quelle case ancora inaspettatamente affollate, a dire parole che spesso laggiù non trovano spazio: io, io, io.
Anche mia madre non va fisicamente a lavoro da mesi, ma lei non è il tipo di persona che parla al cellulare in pubblico dei suoi problemi e il mio cane non apprezza particolarmente il parco del quartiere. Così le sue telefonate non si propagano di giardino in giardino, di balcone in balcone come una telenovela che va in onda tutti i giorni, tre volte al giorno (Beautiful, guarda - anzi, ascolta - e impara). Quelle di mia madre restano imprigionate tra le finestre e le porte e, quando sono a casa, non posso fare a meno di ascoltarle tutte. Non lo faccio per curiosità ma per riflesso e spesso mi capita di sentire le stesse frasi, gli stessi aneddoti raccontati sempre uguali a se stessi ad amiche, colleghi, parenti. Da quando succede, le conversazioni con mia mamma sono sempre più telegrafiche - Roberta, lo sai ch- sì, lo so ma', l'hai detto prima al telefono - e ormai solo al cane è rimasta la soddisfazione socratica di sapere di non sapere. Col tempo, però, ho imparato ad apprezzare questa camera dell'eco domestica: lentamente, il senso delle parole di mia madre ha iniziato a sbiadire. La sua voce messa a nudo diceva solo: io, io, io.
Gli uomini dicono che le donne parlano tanto. Ed è vero,
lo dice anche la scienza, ma solo in certe situazioni. In generale, le donne parlano di più in contesti informali, mentre gli uomini in quelli formali. È una questione di status, di potere. Gli uomini dicono anche che le donne parlano troppo. In realtà fin da bambine siamo educate, o meglio, allenate a parlare di noi, dei nostri sentimenti, mentre spesso ai bambini tutto ciò non viene insegnato. Anche questo, lo dice la scienza. Quello che non dice la scienza però, è che è raro sentire una donna dire: «io». O almeno, è più facile sentirla parlare di sé "in quanto": in quanto madre, moglie, figlia, sorella, lavoratrice, una voce in un coro di voci, quasi mai un assolo. Come nel caso di Faye, la protagonista di “Resoconto”. Sul mio profilo Goodreads ho uno scaffale virtuale chiamato “scrittrici” dove ci sono alcuni dei miei libri preferiti: “Memoria di ragazza” di Annie Ernaux, “Verso Betlemme” di Joan Didion, “Le cose che non ho detto” di Azar Nafisi, e molte altre. Di solito per ognuna cerco di leggere il più possibile, centellinando le loro pubblicazioni nel tempo. Rachel Cusk è una di queste. E dopo aver letto “Resoconto” posso dire con certezza che è una delle mie scrittrici preferite e che Faye, la protagonista, è uno dei personaggi che più mi è rimasto nel cuore. Quello che mi piace di Faye è che è unica: si annulla nella narrazione fino a diventare puro sguardo sul mondo, sugli altri. “Resoconto” è un romanzo fatto di discorsi, di parole ma Faye non parla quasi mai di se stessa, filtra costantemente le risposte delle persone che incontra e le trasmette ai lettori. Raramente sappiamo quali sono le sue domande e ancor meno sappiamo di lei, dei suoi pensieri e della sua vita. Eppure forse, quel poco e niente che sappiamo di lei, ci dice già molto. Perché Faye condensa in sé molte donne: tutte quelle che hanno imparato a parlare da piccole ma che, da adulte, non hanno ancora imparato a parlare di sé. Donne che non sanno dire “io, io, io” perché pensano che quello spazio nel mondo non sia loro: che siano qui, ma mai protagoniste. La sensazione che ho avuto all'improvviso è che invece le donne che parlavano al telefono, la mia vicina di casa e mia madre, avessero combattuto contro la loro Faye interiore e avessero vinto. Le loro, erano conversazioni sull’io che non perdevano mai di vista il punto di partenza. Erano insomma conversazioni che avrebbero superato il Bechdel test. Anche mia madre, che fino a quel momento mi era sembrata una Faye da manuale, mi è all'improvviso apparsa cambiata, diversa e non è stato facile accettare da figlia questo cambiamento. All'inizio, tutti quei verbi coniugati in prima persona mi facevano venir voglia di risponderle come si fa con i bambini: “mamma, ma lo sai che l'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re”? Le sue erano parole che mi provocavano fastidio perché il mio orecchio, ho capito dopo, non era abituato a sentirla affermarsi, individuarsi nel mondo in maniera così netta come altro dal suo essere madre. A un certo punto ho capito il potenziale rivoluzionario di quelle parole e hanno smesso di sembrarmi così strane, quasi sgrammaticate. Mia madre insomma, dopo tanto tempo, si è ritrovata e sono felice che lei l’abbia fatto, che sia riuscita a scrollarsi di dosso Faye, sono felice delle sue conversazioni telefoniche che non includono solo me. A lei e a tutte le altre nuove adepte della prima persona singolare, auguro di continuare a trovare la voce per dirsi, sempre più forte, sempre meno di nascosto. E auguro di sentire, come diceva Sylvia Plath ne “La campana di vetro”, il (più che legittimo) vantarsi del cuore: io sono, io sono, io sono.
L'autrice
Roberta Cavaglià, 23 anni, giornalista freelance per Wired e TheVision. Si occupa principalmente di attualità, politica e ambiente. Ha appena fondato un progetto di informazione femminista chiamato Flair per stimolare la circolazione di idee tra le femministe italiane e quelle straniere.
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Me lo dovevate dire prima
di Astrid Meloni

Ciao, sono Ippolita, ho 38 anni e un ormone antimulleriano allo stremo delle forze: dalle analisi che ho fatto tre mesi, una settimana e cinque giorni fa il valore è risultato allo 0.8. Un anno fa era a 1,7 e nessuno, nessuno, mi ha detto ahò, sbrigati a fare un figlio che poi non c’è più tempo, la menopausa si avvicina, bella! E non mi dite che questo è un argomento privato e che le persone non si permettono di parlarne perché si dà il caso che dopo che ho scoperto che il mio ormone antimulleriano sta per finire e con lui la mia riserva ovarica insieme al mio sogno di diventare madre, ecco lì, ma proprio lì, nel mio punto di rottura, hanno iniziato a dirmelo tutti:  sbrigatinoncepiutempo
Un anno fa no, quando a 37 anni ho fatto degli esami perché io un figlio l’ho sempre voluto, ma ancora non mi sentivo nella condizione giusta - ovvero il mio compagno pressoché cinquantenne non aveva ancora capito se volesse diventare padre - a cinquant’anni? - lasciamo perdere - lui può avere dei dubbi, può decidere, procrastinare, mentre io no – a me nessuno lo ha ricordato bene bene.
Non me lo ha detto la mia ex-amata ginecologa che mi ha risposto testuali parole - riprendo il messaggio del 1 ottobre 2019:
“Allora direi che il valore dell’antimulleriano è compatibile con la tua età (che cazzo vuol dire?) … e poi la fertilità è una cosa di coppia (ma va?)… ci si compensa (che cazzo li metti a fare questi puntini nel mezzo di una frase lo sai solo tu!)…(altri puntini) io credo che l’unica valutazione da fare è che se desiderate una gravidanza allora provate. (un punto, finalmente un punto) Se invece non ci sono le condizioni è inutile stare a pensare a quello che non si può governare (e mettiamocela un po’ di sana filosofia new age, sù!)”
Giuro che volevo andare nel suo studio e affogarla nei fiori di Bach, prenderla a pizze sui chakra, distruggerle la casa a colpi di feng shui, ma io, proprio io, che porto il nome di una Valchiria e che mi incazzo per qualsiasi cosa, ho risposto Grazie, anzi no, Grazie seguito da un cazzo di emoticon a cuore.
Perché ho risposto così? Perché IO non mi sono informata, non ho fatto ricerche, perché non ho chiesto in giro? La verità è che mi sentivo in colpa, mi sentivo sbagliata a 37 anni a non essere ancora nelle condizioni affettive per fare un figlio con luomocheamo, né economiche per fare la rivoluzione e farmelo da sola questo benedetto bambino. Mi sentivo in colpa e così ho aspettato, muta, per un altro anno. Dopo un anno, dopo che sei mesi prima ero riuscita a convincere luomocheamo che forse alla nostra età basta! pensare che dobbiamo stare sempre in pista e che la parola costruire può essere pronunciata senza attacchi di panico, insomma dopo sei mesi che proviamo timidamente ad avere un figlio, dopo esserci confrontati con i calcoli di fertilità,  dopo aver scoperto che i giorni veramente fertili sono due nel bel mezzo del ciclo (48 ore?) preceduti da qualche altro giorno in cui per miracolo puoi rimanere incinta, dopo aver rilevato che ovunque tu vada a cercare ci sia scritto che dopo i 35 sei una ‘primipara attempata’ (definizione che già mi sconvolse quando la sentii pronunciare da Thony in "Tutti i santi giorni" di Paolo Virzì, nonostante all’epoca avessi 30 anni), insomma dopo sei mesi di test clear-blue, fantasie disastrose sulle mie tube di Falloppio e nessun segno da parte del mio corpo, decido di ritornare dalla ex-amata ginecologa new age.
Lei parte con la solita tiritera della compatibilità, dei corpi che si compensano e allora io, stremata, ritiro fuori il mio asso nella manica: «Ma ora che abbiamo deciso di farlo e non ci riusciamo – le dico - magari questo ormone antimulleriano basso può essere un segnale, no?». Lo dico senza grandi speranze, convinta di ricevere un consiglio sul miglior olio di Enotera da prendere per rimanere incinta in un paio di settimane, ma lei mi stupisce: «Perché, l’hai già fatto questo esame?» E io penso eh sì, cazzo che l’ho fatto, un anno fa l’ho fatto, e tu mi hai detto che la compatibilità, l’acqua santa e il sale negli angoli della casa, mi hai coglionata con ‘ste storie e non hai considerato la mia paura che era pure fondata, mortacci tua. Ma seguendo la regola aurea realtà-VS-Instagram le rispondo sì certo dottoressa, lo so che non può ricordarsi tutto di tutte le sue pazienti, ne avrà tantissime, ma sì lo avevo fatto, ed era 1,7.
A questo punto c’è una dilatazione temporale, un silenzio cosmico, un passaggio di cumulonembi sulla sua faccia basita. Si affretta a dire che è un po’ basso, che bisogna darsi da fare e che dovrei ripeterlo insieme all’isterosalpingografia e checcazzonesò: mille nomi complicati di cose altrettanto complicate. Ed è qui che inizia la mia strada verso la consapevolezza. Qui, a 38 anni con un compagno di 48, inizio a capire chiaramente che è tardi, è davvero tardi per me, per il mio corpo, è tardi per la natura. Tardi, forse troppo tardi. Il giorno dopo vado a fare privatamente un altro antimulleriano, dopo tre giorni ho i risultati  - ma cazzo da 1,7 a 0,8, zero!? – e vado a fare una visita in un centro privato. Lì, trovo Cassandra. Che poi non è Cassandra ma è solo la prima donna illuminata che finalmente mi dice la verità su questi fatti di donne di cui nessuno ti dice niente fino a quando non è troppo tardi. Mi spiega che non ha senso che continui a provarci naturalmente, che la mia riserva ovarica è molto bassa – lo sapevate voi che l’ovaio è un contenitore che si riempie di oogoni, cellule che daranno origine agli ovociti, quando il feto femmina ha 21 settimane di gestazione, che in quel momento gli oogoni sono circa 4-6 milioni, che alla nascita ne sono rimasti mediamente 2-3 milioni e alla prima mestruazione circa 400-600 mila? Lo sapevate poi che di tutti questi ne ovuleranno solo 400-500 e che tutti gli altri andranno in malora?; e poi mi dice che il problema non è tanto l’AMH in sé, ma la mia età anagrafica. La mia età è responsabile della maggiore o minore probabilità che l'ovocita sia cromosomicamente sano cioè che possa generare un embrione a sua volta sano che a sua volta potrà dare vita a un bambino e che c'è una clinicaaromadovec'èunprofessoreasdasdasdasda. Praticamente sento solo del grammelot mentre lei spiega, scandendola in perfetto italiano, la mia situazione. Io sento e non sento, sono sotto choc, capisco una parola su due, la guardo basita, scoppio a piangere. Non ce la posso fare.
Sono passati due mesi, la notizia di essere così a rischio di non poter avere un figlio ha rafforzato in me il desiderio ma non solo in me, alcuni uomini, si sa, messi alle strette danno il meglio e anche luomocheamo ha fatto il suo. Luomocheamo è diventato il massimo esperto di PMA, acronimo di procreazione medicalmente assistita, il più determinato motivatore che io abbia mai visto in azione, il più sexy stringitore di mani durante le visite, il più forte paladino contro le mie angosce motivate e non. Ma io sono stata fortunata perché luomocheamo non mi ha lasciata come una stronza a combattere contro la drastica e inconsapevole riduzione della mia fertilità, che tanto lui è maschio e i figli, se poi vorrà, li può fare fino a 70 anni, non mi ha detto nemmeno che visto che non era tanto convinto allora potevamo lasciar perdere, non ha tirato in ballo il destino, il pacco di soldi che ci serviranno per affrontare questo percorso. Luomocheamo non si è spaventato. Io sono stata fortunata e lo sarò ancora di più se questo figlio verrà ma ogni giorno penso, ogni giorno mentre combatto, penso a perché diavolo nessuno mi abbia mai messo davvero in guardia, nessuna donna, mia madre, mia sorella, nessuno mai, fino a ora, mai e dico mai, mi ha detto come stavano le cose. Nessuno fino a quando non sono stata io la prima a parlarne.
Io non lo so se è un caso, ma solo dopo che ho avuto un quadro molto chiaro della situazione, ecco, solo allora le persone intorno a me hanno iniziato a parlare di questo. Nessun insegnante, nessun medico, nessun familiare, nessuna nemmeno delle donne che poi ho scoperto avevano affrontato percorsi simili. Nessuno. Passano il tempo a terrorizzarci su quanto sia facile e pericoloso restare incinta quando non si vuole ma nessuno ci spiega davvero bene che poi quando lo vuoi non è esattamente una passeggiata. Almeno dopo una certa età. Nessuno ne parla.
E io non credo che sia per l’avanzare degli anni, non credo che sia il caso, credo invece che questo argomento come tanti altri che riguardano la donna e il suo corpo sia tabù, vada bisbigliato, confidato, non urlato a tutti e tutte. Non ci credo, lo dicevo la scorsa domenica appoggiata a una colonna in campagna alla mia amica Anna che combatte anche lei la stessa battaglia, non ci credo che ce lo hanno tenuto nascosto. Non ci crediamo che non ce l’abbiano detto - congélati gli ovuli! - non ci credo che nessuno lo sa, e allora se si sa perché nessuno lo dice? Come diceva qualcuno “La vera rivoluzione comincia dentro di noi”. E così, mentre parlo con Anna appoggiata alla colonna in campagna, mi guardo intorno e vedo le nostre amiche, tutte potenziali primipare attempate, le guardo e penso, ma perché cazzo mi sono appartata per parlare di questo, ma perché non ne parlo apertamente? Perché è da me che deve iniziare la rivoluzione e la rivoluzione inizierà quando la smetteremo di pensare che tutto ciò che è corpo di donna sia imbarazzante o pericoloso, misterioso o segreto. Basta: smettiamo.
Smettiamola col silenzio, col sentirci in colpa, col pensare che qualcun altro possa decidere per noi.
Parliamo, parliamone.
Agiamo.
Noi. Insieme.

L'autrice
Astrid Meloni, è un’attrice di Teatro, Cinema e Tv. Nasce a Sassari e si trasferisce a Roma a 18 anni per studiare Psicologia alla Sapienza. Dopo la laurea si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia nel corso di Recitazione. Fra i suoi lavori del 2020 la serie Netflix Luna Nera, Tornare di Cristina Comencini e Storia di Nilde di Emanuele Imbucci. Nel 2021 sarà tra gli interpreti di Freaks out di Gabriele Mainetti, di Marylin ha gli occhi neri di Simone Godano e delle serie TV Makari, di Michele Soavi e Buongiorno Mamma, di Giulio Manfredonia. Non scrive per professione, solo per emergenza.
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