Diamogli fiducia
di Corinna De Cesare
Dev'essere tutta colpa di Ally McBeal. Mentre voi vi struggevate per Carrie e mr Big, le scarpe di Manolo Blahnik, i locali di Manhattan, il Cosmopolitan e altre imprescindibili amenità newyorkesi, a fine anni '90 io sculettavo allo specchio come Biscottino, ascoltando Barry White. Mi ero persino scaricata l'album di Vonda Shepard che mettevo a palla nell'Alfa di mio padre, quelle rare volte in cui riuscivo a sottrargliela e guidavo io, dopo l'esame della patente ripetuto due volte. Sono sempre stata una frana negli esami a crocette, senza parlare poi di quei disegnini di logica che mi facevano venire certi mal di testa. Ma insomma dev'essere senz'altro colpa di Ally McBeal se ancora oggi, nelle situazioni di ansia, stress, agitazione, io esorcizzo. Canto, ballo con improbabili hit anni '90, nella migliore delle ipotesi faccio la bionda scema di Basta che funzioni. Il giorno del mio esame di maturità, mi presentai ai cancelli cantando e ballando "crying at the discoteque" degli Alcazar. Quando potevo ancora vantarmi di essere ventenne e facevo dieci cento contratti a termine uno dopo l'altro, entravo in via Solferino in punta dei piedi e non riuscivo mai e dico MAI a fare la scalinata nobile del palazzo. Il tappeto rosso, le facce incorniciate di letterati, scrittori e premi Nobel alla parete, e poi...io. Per sopravvivere a quest'ansia di prestazione, entravo e mi catapultavo nel primo ascensore disponibile e per esorcizzare la mia ansia, cosa potevo fare? Cantavo. Non parlo di fischiettare, accennare un motivetto sottovoce, no. Io cantavo proprio, scegliendo anche un certo repertorio classico appartenente alla tradizione musicale del ventesimo secolo: la sirenetta. Per anni sono andata avanti passando il badge, ascensore e cantatina fino a quando mentre "scommetto che-lì-sulla-Terra-le figlie non le sgridano mai e nella vita fanno in fretta ad impararrrrr" si apre l'ascensore e all'improvviso mi ritrovo di fronte Mario Monti. Da allora sono trascorsi diversi anni eppure, nonostante i 20 siano passati da un pezzo, nonostante Monti e nonostante Sex and the city abbia avuto molto più successo di quanto lo meritasse invece Ally McBeal, esorcizzare resta il mio imperativo. Anche in questo nuovo anno pandemico a cui sono bastate appena un paio di settimane per farci capire che non basterà: non basterà cantare In fondo al mar o This is the Rhythm of the Night. Non basteranno riti scaccia sfiga, danze della pioggia e non basterà Barry White, non basterà fare come Ally e ballare in salone con un immaginario bambino gongolante. Non basterà neanche alzare la musica dello stereo al massimo come faccio io, quando in macchina cedo alla tentazione irresistibile di cantare a squarciagola All that she wants quando la becco alla radio. In queste prime due settimane dell'anno abbiamo assistito a un attacco a Capitol Hill con una banda di scemi travestiti da vichinghi entrati nella sede del governo americano, abbiamo registrato il secondo impeachement per Trump, abbiamo visto la neve in Spagna e la gente al mare in Grecia, abbiamo assistito a un'altra esecuzione di una pena di morte in un Paese democratico. In Germania si avvicina l'addio di Angela Merkel e in Italia? In Italia solo l'ennesima crisi di governo con le manie di protagonismo di un uomo che fa propaganda con il femminismo e poi tratta le donne come se fossero sue ancelle. Una cosa mai vista, talmente mai vista che sta diventando un classico Disney. Ally McBeal diceva: «Se alla fine di un anno, ti guarderai indietro e non piangerai né riderai, vuol dire che l'avrai sprecato». Qui siamo solo all'inizio e abbiamo già fatto tutto, compresi i buffetti a Teresa Bellanova. Abbiamo chiuso il 2020 pensando «andrà meglio». I più ottimisti si sono lanciati in un «è finita», i fiduciosi in un «finirà presto». Tutti abbiamo cominciato il 2021 pensando «Diamogli fiducia» come se questo nuovo anno fosse il figlio indisciplinato che non si applica, quello che va bene a scuola ma può fare di più, sperando in fondo che il 2021 si mostrasse subito come la quiete dopo la tempesta, un «tutto è bene quel che finisce bene», invece siamo qui che parliamo di crisi di governo, ennesimo dpcm e OMMMIODDIO del sequel di Sex and the city. Dei vaccini, abbiamo smesso di parlare visto che abbiamo capito che a noi poveri mortali arriveranno probabilmente nel 2023. L'unica cosa che ci resta da fare, ormai, è cantare e ballare. Dentro casa. Con i congiunti. E se non ce li avete, fate come Ally: inventateveli.
L'autrice
Corinna De Cesare, 38 anni, è giornalista del Corriere della Sera. Ha seguito per il quotidiano di via Solferino la crisi greca e le elezioni europee. Scrive ora principalmente di donne, lavoro, pari opportunità. Fondatrice di thePeriod, nel 2021 uscirà il suo primo romanzo con Salani.
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Scusarsi
di Ilaria Gaspari
Io mi scuso sempre. Passo un’infinità di tempo a chiedere scusa: è un riflesso, un modo per arginare preventivamente la mia presenza nel mondo. Se uno mi pesta un piede, io gli chiedo scusa. Se c’è stato un malinteso, io chiedo scusa. Se sono stanca e ho bisogno di andare a dormire, chiedo scusa. Chiedo scusa se non riesco a prendere il bis, se sono in ritardo. Ho chiesto scusa, una volta, a un tizio che si era messo, con aria serafica, a frugare nel mio zainetto, con la plausibile intenzione di rubarmi il portafogli – a impedirglielo però fu il mio disordine, non la mia cortesia. Scusi!, e mi allontanai.
Chiedo scusa alle persone che pretendono il mio tempo senza averne diritto. Scusa a chi mi scrive proponendomi di spedirmi uno, due, cinque racconti “per un parere”, anche se non sono un’editor, anche se non lavoro in nessuna casa editrice, anche se ho duecentomila cose da fare; ovviamente le spiego, tutte queste ragioni per cui preferirei non ricevere manoscritti di sconosciuti, poi però li ricevo lo stesso, e allora mi scuso. Mi scuso perché a quel punto mi sento obbligata a leggere, ma non trovo il tempo; ma mi scuso, forse, soprattutto, perché in realtà il fatto di sentirmi obbligata – per colpa del mio tortuoso senso del dovere – a fare una cosa che sarebbe mio diritto non fare, mi fa arrabbiare. Così frappongo, fra la mia rabbia e il suo sano deflagrare, che mi spaventa, l’unica cosa che mi sento in diritto di frapporre, un silenziatore: le mie scuse. So che potrei sembrarvi non troppo sveglia, alla luce di questa confessione: ma non avevo mai riflettuto, fino a qualche giorno fa, sulla mia mania delle scuse. È sempre stato – non è vero: è diventato, negli anni – un automatismo. Me ne sono resa conto solo grazie ai suggerimenti del cellulare, avete presente quando vi suggerisce la parola successiva? Avevo solo scritto ciao, in un messaggio, e sotto c’erano tre suggerimenti: scusa – sono – scusami. Mi ha fatto impressione – praticamente, una seduta d’analisi offerta dal mio t9. Mi sono sentita costretta a interrogarmi su un’abitudine che è quasi un tic. Ho pensato che, da una parte, questo mio continuo chiedere scusa è un modo per rendere sempre più angusto il perimetro dello spazio che occupo, cosa che mi fa sentire perennemente circondata, assalita, da richieste che mi sento in colpa di non potere o di non voler soddisfare; d’altronde, però, questa prigione me la sono costruita da sola, usando dei mattoncini molto resistenti, gentilmente offerti dalla mia buona educazione, dall’imperativo introiettato a essere, con il mondo intero, accogliente, gentile, disponibile, in una parola: materna. Allora, ho deciso di cimentarmi in un esercizio filosofico: cambiare il mio modo di abitare lo spazio e il tempo. Rivendicarli. Smettere di scusarmi ossessivamente, non fare le cose per puro senso del dovere, per poi finire sepolta da una catasta di incombenze e dovermi far salvare dalla pigrizia. Imparare a dire dei no da subito, per evitare che i no non detti si trasformino in scuse, nel fastidio di chiedere scusa senza davvero volermi scusare. Del resto, sono ancora quei giorni dell’anno in cui, finché c’era da scrivere la data sui fogli protocollo, io sbagliavo e segnavo le cifre dell’anno precedente, così poi mi toccava farci una riga sopra e il foglio era rovinato fin da subito. Tempo di buoni propositi, che non sono mai stata in grado di mantenere. Devo trovare un escamotage per il mio esercizio filosofico, per mettermi in condizione di riscattare il mio tempo e il mio spazio. Opto per un proponimento molto semplice, disarmante: non mi proporrò niente. Non mi voglio dare obiettivi, non mi voglio migliorare, non voglio promettermi che userò finalmente la cyclette che ho comprato a marzo. Non la userò, e non voglio nemmeno l’onere di disobbedirmi per poter essere la pigra che sono. Non mi voglio deludere, una volta tanto. Ma attenzione, non è un esercizio di nichilismo – ci mancherebbe: dopo dieci mesi di lockdown, o come si chiama, ci mancherebbe solo il nichilismo. È, semplicemente, l’esercizio più filosofico che mi sia venuto in mente per quest’anno appena incominciato. Una sorta di stoicismo misurato, se vogliamo; una riduzione del raggio delle mie speranze. Saranno questi mesi di reclusione, sarà la mia mania di procrastinare, la sindrome dell’impostore, il telefono che non sta mai zitto – il risultato è che soffro di ansia, come molti, come molte: pare che statisticamente l’ansia sia un disturbo in prevalenza femminile. Forse per ragioni storiche, legate agli sviluppi nello studio della sua sintomatologia; forse, aggiungo io, per via dell’imperativo a cui sempre sono sottoposte più le donne degli uomini, a conformarsi a un modello, a rispondere ad aspettative millimetriche, ad accogliere, ad accomodare. E allora quest’anno mi concederò una tregua. Non sarà per sciatteria, una volta tanto, ma per partito preso, se non sarò in gara con me stessa; non terrò contabilità, né di fallimenti né di successi, se ce ne saranno. Quando ti sposi, quando lo fai un bambino, vedo che ti fanno scrivere dappertutto. Non mi interessa: non mi giustificherò. Magari sarà l’anno che mi sposo, o quello in cui faccio un bambino, o almeno lo metto in cantiere. Ma non ho intenzione di programmare proprio niente. Voglio essere come i bulbi di giacinto che qualche settimana fa ho rimesso nella terra. Hanno dormito per mesi; e ora, ora che è arrivato per loro il momento, tornano a fiorire, come niente fosse. Non mi dirò nemmeno: devo prendermi un po’ di tempo per me. No! Me lo dico ogni anno, e poi quel tempo, però, lo sbriciolo in mille minuzie ansiogene. Non mi dirò niente, mi lascerò trascinare dalla corrente, e quel che succede succede. Sarà un anno per dissiparmi un po’, per lasciarmi essere, senza dover avere ragione, anzi: imparando ad avere torto. Non avevo mai pensato prima a quanto sia importante, qualche volta, avere torto marcio. Non essere quella ragionevole. Non essere quella forte, quella che capisce. Non me l’ero mai concesso – e come me, quante sono quelle che non se lo concedono mai? Dai tempi in cui si sono sentite dire, da bambine, che sono brutte quando piangono. Che sono più belle con un sorriso; questo, grazie al cielo, le mascherine ci proteggono dal sentircelo dire pure da adulte, da perfetti sconosciuti che si ritengono galanti. Se mi viene da piangere, quest’anno, piangerò a costo di essere brutta, orrenda, inguardabile. Sorriderò se e quanto mi pare, e soprattutto, mi allenerò a non chiedere continuamente scusa per tutto. Ma di nuovo sto ricascando nelle prescrizioni. Mi sto disegnando un modello strafottente e libero di me stessa, a cui chiaramente non somiglierò mai. Quanto è difficile uscire dai circoli viziosi? Il bello è che non lo so. So solo che quest’anno non voglio somigliare a nessuna versione migliorata di me, a nessuna donna che ammiro. Voglio ammirare, voglio amare, voglio sbagliare in pace; lasciarmi fare quel che mi pare accettando il lusso di non tormentarmi. Vediamo se ci riesco, ma il bello è che, se non ci riesco, non cambia proprio niente.
L'autrice
Ilaria Gaspari ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa, poi si è addottorata a Parigi, all’università della Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, "Etica dell’acquario" (Voland). Per Sonzogno nel 2018 ha pubblicato "Ragioni e sentimenti. L’amore preso con filosofia". Nel 2019 è uscito per Einaudi "Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita". Ora vive a Roma, continua a scrivere e tiene corsi e laboratori di scrittura alla Scuola Holden e alla Scuola Omero  
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Mi piace guardare
di Marina Pierri

«Mi piace guardare» direi citando una delle critiche più celebri del mondo e cioè Emily Nussbaum (il libro che racchiude i suoi saggi è edito da Minimum Fax) e ora che il mio 2020 di visioni se n’è andato - proprio come il tuo - sono qui a chiedermi cosa, eventualmente, devo ancora recuperare. Confesso che ho impiegato buona parte dell’anno scorso in un’impresa degna ma complessa e cioè riguardare Buffy L’Ammazzavampiri su Amazon Prime Video, in tutte le sue gloriose sette stagioni. Quando si parla di serie tv, infatti, una lezione preziosa da apprendere è non correre sempre dietro al nuovo titolo di richiamo ma fermarsi ad assaporare e riflettere, magari tornando indietro. Niente lo vieta, in effetti ed è proprio quello che farò qui, pensando: sono le mie serie, decido io e non devo dimostrare nulla a nessuno.
Parto da Work In Progress, su NowTv: Abby – interpretata dalla grandissima Abby McEnany che è anche co-showrunner e co-sceneggiatrice - è una donna lesbica di mezza età affetta da disturbo ossessivo-compulsivo. Ha deciso che la vita non vale la pena di essere vissuta, e conta i giorni che la separano dal momento in cui – potenzialmente – potrebbe scegliere di porvi fine. I giorni sono rappresentati da un pugno di mandorle che custodisce gelosamente: ne getta una ogni giorno per ricordare a se stessa del proposito. Eppure… c’è sempre un «eppure», perché le storie sono pattern interrotti (come sostiene Margaret Atwood). Dunque, un bel giorno Abby incontra Chris – che ha il volto di Theo Germaine - cioè un ragazzo trans che la farà sentire amata innescando una spirale (salutare) di dubbi. Insomma nel corso di questa prima stagione Abby sarà costretta ad affrontare i suoi demoni e noi, almeno un po’, saremo portate ad affrontare i nostri. Non ho parole per descrivere quanto questa serie sia importante e potente: per la sua enorme umanità ma anche per la sua piccola rivoluzione in termini di rappresentazione. Datemi retta, e dico sul serio: non lasciatevela scappare, anche perché contiene alcune delle scene migliori che abbia mai visto.
E poi c'è The Wilds, su Amazon Prime Video. Avete presente Lost? Certo che ce l’avete presente, o almeno l’avete sentita nominare perché è lo show che ha cambiato per sempre la televisione. La sua influenza continua a riverberarsi sulle nuove storie per i piccoli schermi, perché prima di ogni altra cosa la serie di Damon Lindelof e Carlton Cuse ha messo a frutto una maniera speciale di raccontare i personaggi unendoli e separandoli, separandoli e unendoli, mostrando il passato per gettare luce sul presente e il presente per illuminare il passato. Ed eccole qui le ragazze di The Wilds, la prima serie young adult (ma non fatevi ingannare, è perfetta per qualunque età) firmata Amazon Prime Video che utilizzando l’esatto canovaccio di Lost (incidente aereo-isola deserta ignota) costruisce uno dei prodotti per me più rilevanti e godibili dell’anno scorso. Posso ovviamente sbagliarmi ma a giudicare dal finale, e se tutto va bene, The Wilds ci accompagnerà per un po’ di tempo. La vera ragione per guardarla è che a parte le miniserie di prestigio tipo The Undoing et similia abbiamo un bisogno disperato di serie tv-vere-e-proprie, appuntamenti da trascinarci per cinque o sei anni provando l’ebbrezza di considerare i personaggi come vecchie amiche. È esattamente quel che Dot, Shelby, Fatin e le altre potrebbero diventare. Le potenzialità ci sono tutte.
E come non citare Vida, su Starzplay, che a pensarci bene potrebbe essere anche un buon augurio per l'anno nuovo? Una serie tv (di Tanya Saracho) che in poche e pochi conoscono, eppure da sola vale quasi un abbonamento alla piattaforma Starzplay (cui si accede da AppleTv+; occhio perché contiene anche altri titoli pazzeschi). Lo show racconta di due sorelle messicano-statunitensi costrette a fronteggiare la scomparsa della loro madre, ma soprattutto a gestire la sua eredità spirituale e concreta. Vidalia – da cui il titolo – era una donna lesbica, sebbene le sue figlie Emma e Lyn non lo sapessero. Inoltre, aveva un bar nel quartiere a prevalenza latinoamericana Boyle Heights, a Los Angeles, che era più di un semplice posto dove bere una birra: era un vero e proprio ritrovo queer, il cuore pulsante di una comunità in perenne lotta per conservare le proprie radici a dispetto della gentrificazione turbocapitalista incipiente. Seguiamo Emma e Lyn nel loro viaggio eroico interiore ed esteriore nel corso di tre stagioni da una manciata di episodi di mezz’ora l’uno; personalmente mi sembra di aver conosciuto di rado personaggi così potenti e memorabili. Credo (e perdonerete la freddura) che Vida sia una delle mie serie della vita. Chissà che non lo diventi anche della vostra.

L'autrice
Marina Pierri, critica televisiva e autrice, scrive con particolare attenzione alla rappresentazione femminile nelle serie tv. Dal 2018 è co-fondatrice e direttrice artistica di FeST - Il Festival delle Serie Tv di Milano che, a oggi, si tiene in Triennale. È laureata in semiotica e, tra le altre cose, insegna allo IED. Negli ultimi due anni è apparsa in diverse antologie tra cui Tutte le ragazze avanti (ADD Editore) e The Game Unplugged (Einaudi). Il suo primo libro, Eroine (Edizioni Tlon) è disponibile dal 16 settembre
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