La ragazza del Brunello
di Corinna De Cesare
Ogni Brunello di Montalcino venduto a cena, prendevo dieci euro in più. Facevo la cameriera in un ristorante vegetariano a Roma, imparavo ricette che poi mi sarei spesa per anni e anni nelle cene tra amici, studiavo, lavoravo e facevo patti in cucina con il proprietario del ristorante per guadagnare di più: ogni Brunello, dieci euro. E a Prati, quando i ristoranti erano ancora aperti e si faceva la fila per un buon gelato da Old Bridge, quando le mura vaticane erano un tornante umano di turisti e macchine fotografiche, quando i ragazzi si davano appuntamento nel weekend al Pincio per rimorchiare e non per picchiarsi, ecco all'epoca (salvatemi! Sono quel tipo di persona che dice all'epoca, salvatemi!), di clienti che bevevano Brunello non si faceva fatica a trovarne. Finì che con i soldi del Brunello aprì il mio primo conto corrente alle Poste. E poi la prima postepay, le ricariche del cellulare, i libri da Maraldi. Poi però, la ragazza del Brunello è sparita. Scomparsa, persa, caduta in una botola, rapita e mai più ritrovata. Dove sei? mi chiedo ancora oggi. Al suo posto ci sono io che alla cassa del supermercato prendo il resto sbagliato di pochi centesimi e faccio finta di niente, io che dal calzolaio sbaglio i conti e pago di più di quanto dovrei, io che al parchetto mi vendono un libro per bambini da 7 euro ma decido di pagarlo 10, io che firmo il mio primo contratto da giornalista senza l'allegato con i compensi, io che rincorro la gente che mi deve pagare, io che fanculo il capitalismo e il pinkwashing: creo un progetto tutto mio e lo faccio con le mie risorse (rimettendoci). L'affarista del Brunello si è persa, nascosta, non la trovo più e mi manca. Manca soprattutto quando mi sveglio alle 7 di mattina e mi arrivano le notifiche della carta di credito per l'abbonamento mensile di Mailchimp, Spreaker, Canva. Manca quando devo pagare i contributi della newsletter, quando devo firmare un nuovo contratto e non sono capace di valorizzarmi, manca perché faccio tanta teoria ma poi alla fine, quando si tratta della pratica per me stessa, dimentico tutto. E dimentico anche la lezione di Margaret Tatcher: «Nessuno ricorderebbe il Buon Samaritano se avesse avuto solo buone intenzioni. Aveva anche i soldi».
Che sia una questione di potere, non c'è dubbio e se noi donne spesso il potere non ce l'abbiamo, è perché non ce lo prendiamo. E non chiediamo mai niente, figurarsi i soldi. Non è un caso, mi ripeto spesso, se della famosa frase di Virginia Woolf, ci ricordiamo solo la stanza. E mi piacerebbe tanto darvi ragione, consolare il vostro romanticismo, dire che per scrivere (e quindi autonome, indipendenti, libere) davvero ci basta solo una stanza tutta per noi ma, andiamo, chi ci crede? Servono pure i soldi e invece nella vita ci comportiamo come se fossimo tutte delle moderne Norma Desmond di Sunset Boulevard mentre con i brillanti al collo rispondiamo: Shut up, I'm rich. Purtroppo così non è. E quindi chiediamoli questi soldi, che sia un aumento, gli straordinari, una promozione, smettiamola di pensare ossessivamente a cosa penseranno di noi. Quando Chimamanda Ngozi Adichie tenne la sua prima lezione di scrittura all’università, si infagottò in un tailleur molto serio e parecchio brutto. «Avrei tanto voluto mettermi il lucidalabbra e la gonna corta» ammise anni dopo. Non aveva avuto il coraggio: temeva di non essere presa sul serio. L'ho fatto anche io dieci, cento, mille volte. Per anni mi sono nascosta dietro la scrivania, ho vissuto il mio corpo come un ingombro, una maledizione, qualcosa che distoglieva lo sguardo dalla testa e non lo farò mai più. Per anni mi sono impegnata e ho lavorato duro per pochi spiccioli senza chiedere qualcosa in più e anche questo, non voglio farlo più. Ed eccomi qui dunque, alle prese con la foto della quarta di copertina del mio primo libro e con i costi di gestione di questa newsletter per cui ho deciso di tirare fuori dalla botola la ragazza del Brunello. Se thePeriod é tra le cose che volete nel 2021, iscrivetevi al club: è il vostro atto di fiducia, il vostro giuramento, un patto di fedeltà che ci aiuterà a migliorarci, a offrirvi contenuti nuovi ed esclusivi, a garantirvi la cura e la qualità che in tutti questi mesi non è mai mancata. E per quanto riguarda la foto, ho sempre odiato i volti tristi, riflessivi, il cliché del letterato maledetto. Non sono un letterato e non sono neanche maledetta, sono solo la ragazza del Brunello: sorriderò e se dalla camicetta si vedranno le tette, pazienza: ce le ho. 
L'autrice
Corinna De Cesare, 38 anni, è giornalista del Corriere della Sera. Ha seguito per il quotidiano di via Solferino la crisi greca e le elezioni europee. Scrive ora principalmente di donne, lavoro, pari opportunità. Fondatrice di thePeriod, ad aprile uscirà il suo primo romanzo con Salani.
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Mettiamo più soldi nei nostri p.s.
di Alessandra Minervini
Cominciamo da un post scriptum. Questo p.s. ha una firma autorevole: appartiene a Louisa May Alcott che ha avuto solo un assillo: i soldi.
«Ho lavorato per vent’anni con compensi da fame, pressoché misconosciuta e senza altra ambizione che sbarcare il lunario, poiché ho scelto di mantenermi da sola e ho cominciato a farlo a sedici anni».
A differenza mia, e di molte mie amiche, lei nel 1863 rivolgendosi a un uomo, uno dei suoi primi editori, non si vergognava a chiedere ciò che le spettava per il lavoro svolto. Io, all'alba del 2021, faccio ancora fatica. Ogni volta è un «vabbè poi ne parliamo, grazie anzi per aver pensato a me, davvero ne sono onorata».
Fino a qualche tempo fa le cose andavano persino peggio. Non ci pensavo nemmeno a essere pagata (Non fatelo mai!). Ora, a costo di sembrare una venale impertinente tanto quanto quella testa audace di Alcott, non lo faccio più. Ma ancora una volta mi ritrovo a prendere lezioni da una donna in crinoline. E questa sì che è una vergogna (la mia). "Piccole donne", il romanzo su cui tutte (o quasi) le ragazze di tutto il mondo hanno fondato la loro etica romanticamente ribelle, è nato per soldi. I soldi che servivano ad Alcott per campare.
«Sono felice che Piccole donne le sia piaciuto, giacché il libro è stato scritto su commissione e di gran carriera, e ho nutrito moltissimi dubbi sulle possibilità di successo di questo mio primo tentativo con la narrativa per ragazze. I personaggi sono ispirati alla vita reale, alla quale si deve qualunque merito essi abbiano, poiché mi sarebbe del tutto impossibile inventare nulla di autentico o commovente anche solo la metà dei meri eventi che la vita mi mette davanti ogni giorno. Mi dedicherei più che volentieri a questo genere di narrazioni, ma sfortunatamente non pagano bene quanto la “spazzatura”, una considerazione venale, me ne rendo conto, ma che ha il suo peso quando non si scrive ispirati dal genio ma dalla pura necessità».
L'ho scoperto leggendo "Le nostre teste audaci",
un epistolario di Louisa May Alcott a cura di Elena Vozzi edito da L'Orma editore. Una lettura che ci racconta l'infanzia, l'adolescenza, la formazione letteraria, l'essere anticonformista, abolizionista e femminista, il carattere volitivo e tenacemente legato alla vocazione di scrittrice che Alcott, prima di molte, aveva individuato come un guaio. Non perché le scrittrici si innamorano sempre della persona sbagliata. L'amore non c'entra niente, c'entrano i SOLDI. Per molte donne che lavorano in proprio essere pagate (o riscuotere ciò che spetta) è imbarazzante, ci sentiamo adolescenti che chiedono ai genitori la paghetta per la pizza del sabato sera. In molti casi, i soldi vengono dopo. Non sto parlando delle scrittrici soltanto, sto parlando di tutte le libere professioniste, le partite iva, le free lance. Le donne che si mantengono da sole sanno benissimo che la dignità di un essere umano passa anche attraverso i soldi e non dico che sia la cosa giusta. Ma è la cosa con cui bisogna stare al mondo. Su quest'argomento, l'epistolario di Alcott è così rivoluzionario che dopo averlo letto, mi sono afflosciata su me stessa. 
«Quanto a me, sono una vecchia ape operosa, così indaffarata da non aver tempo per il minimo piacere, e nemmeno per scrivere lettere, col risultato che trascuro tutti e mi sento oppressa da un continuo senso di colpa.»
La parola magica è senso di colpa. Ancora quel maledetto ancestrale senso di inferiorità che mi fa sentire in colpa e quindi muta e quindi sola e quindi depressa e quindi in difficoltà quando si tratta di far presente che dimenticarti di monetizzare il mio lavoro è una mancanza di rispetto. Non avete mai avuto pudore nel chiedere a qualcuno un compenso per il vostro lavoro quando questo qualcuno ha dato per scontato che tanto non avreste avuto il coraggio di farlo? Io sì. Continuamente. E non parlatemi di arretratezza, tette, culo, sud, femmine e ballo del qua qua qua. Tutto sono, tranne che una donna arretrata. E ne ho le prove, da generazioni: 
«Ho cominciato a lavorare giovanissima in una camiceria, e naturalmente sottopagata. Ora la chiusura della ditta per me e le altre compagne significa un passo indietro, tornare al lavoro sottopagato, al lavoro nero. E per tutte noi, che siamo già passate per quello sfruttamento, che abbiamo fatto tante battaglie per combatterlo, non è accettabile. In questi anni la donna è cambiata, ha capito che non può sempre subire. Vuole essere, anzi lo sta diventando, protagonista. E difatti noi nella cooperativa non vediamo un comodo rifugio, per rinviare lo spettro della disoccupazione. Noi crediamo nella cooperazione. Il mondo imprenditoriale ci guarda ancora con un po' di diffidenza; ci vedono tutte ragazze e perciò più in basso...E in effetti come donne abbiamo delle difficoltà maggiori. E questi condizionamenti sono effettivamente degli ostacoli. A me è capitato varie volte di dover rinunciare a congressi sindacali, e tutto perché la sera dovevo tornare a casa». Chi scrive non è Louisa May Alcott ma Elena Cascella, mia madre. Qualche settimana fa ho trovato un numero del 1976 della rivista Annabella dove una giornalista, Cristiana Di  San Marzano, intervistava alcune donne meridionali che si battevano per essere pagate. Per i soldi. Fa impressione: mia madre e la Alcott sullo stesso piano per mancanza di deferenza e per diretta intercessione di ricevere ciò che spetta. Tra loro scorrono cento anni e passa di Storia. E io? E noi oggi? Sono circondata da donne che non sanno chiedere i soldi per il loro lavoro.
"Ma ti sei fatta pagare?"
"No"
"E perché no?"
Silenzio. In quel silenzio c'è la vergogna, dispiace dirlo, di essere dentro un sistema in cui se le donne parlano di soldi, non sta bene. Sono volgari. Che disgrazia doverne parlare ancora.
«Sono convinta che per la stessa quantità di lavoro, svolta altrettanto bene, sia doveroso un uguale salario. Sei d’accordo con me, vero? In futuro auspico che le donne possano fare quel che vogliono, che gli uomini la piantino di metter loro i bastoni tra le ruote, e soprattutto che la partita si giochi ad armi pari – è una semplice questione di giustizia, e questo è quanto. Non ne posso più di sentir parlare di "sfera femminile", né dai nostri illuminati (?) legislatori seduti sotto la cupola dell’assemblea di Stato, né tantomeno dai predicatori sui loro pulpiti. Sono stufa, dopo tutti questi anni, di sorbirmi fandonie su querce vigorose e fiorellini di campo, la cavalleria maschile e il dovere di proteggerci. Lasciamo la donna libera di scoprire i propri limiti».
Lo scriveva Louisa May Alcott e noi siamo ancora qui che dobbiamo imparare a fare i conti, senza dover rimediare per forza un matrimonio che ci renda più sicure di noi. Se Jo March avesse sposato Laurie, rinunciando alla sua vocazione e dunque alla sua autonomia, "Piccole donne" lo avrebbe scritto Amy. E noi ci saremmo annoiate moltissimo. Ma questo, Louisa May Alcott, non lo ha permesso e gliene saremo grate per sempre. Come saremo grate al suo post scriptum
P.S. Sia così gentile da inviarmi l’assegno sabato prossimo.
L'autrice
Alessandra Minervini, (1978), è nata a Bari dove ora vive. Si è laureata in Scienze della comunicazione a Siena, in seguito si è diplomata alla Scuola Holden e ha conferito il master in scrittura cinematografica alla Rai. Da anni è docente Holden per i corsi esterni e online, writing coach. Lavora come editor e insegnante di scrittura e i suoi racconti sono apparsi sulle principali riviste letterarie. Ha pubblicato il romanzo Overlove (LiberaAria, 2016) e Bari, una guida per Odos Edizioni 
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Un po'di sesso anni '90, grazie
di Federica Venni

Qualche giorno fa chiacchieravo virtualmente con un tizio e dopo un lungo scambio di messaggi, la conversazione si è conclusa così: «Comunque - mi ha scritto lui - quando vuoi discorrere di sesso io sono sempre disponibile, tanto ormai se ne parla più di quanto si pratichi». Un quarto d’ora dopo, su WhatsApp, la notifica di un’amica: «Volevo solo dirti che, grazie ad Amazon, fra 48 ore avrò il mio primo vibratore». Rassicurata dal non essere l’unica al mondo in evidente crisi da astinenza, noto con gli ormoni affranti, che in quanto a sesso siamo messi tutti male. Malissimo. E per chi è cresciuto negli anni Novanta a pane e Sex and the City, non è una cosa da niente. Già, gli anni Novanta: crollato l’ultimo baluardo della sveltina allegra, scollinato il millennio siamo rimaste orfane della più antica e piacevole delle discipline. Gli americani, a quanto pare, si erano già portati avanti: secondo “Archives of Sexual Behaviour”, già nel 2010 praticavano molto meno sesso rispetto a vent’anni prima. E oggi eccoci qui a fare i conti con la pandemia che ci sta regalando la più democratica delle tragedie: tutti in astinenza. Single, coppie collaudate, tutti. Addio al sesso spensierato, spinto, appagante, istintivo, occasionale. Quello col collega al lavoro, col ragazzo conosciuto al bar, col marito arrapato, col trombamico dell’Università. Quello un po’ disordinato dei triangoli alla Brenda-Dylan-Kelly, quello estivo e sudato infrattati in cabina, quello nello sgabuzzino del posto di lavoro che sì, lo vedevamo solo nei telefilm (e mica si chiamavano serie, allora) e ce lo sognavamo con George Clooney in camice bianco.
Non possiamo dire però che qualcuno, proprio negli anni Novanta, non lo avesse previsto. Avevo quattordici anni, era il mio primo concerto, e gli Articolo 31 cantavano: “Corre l’anno 2030…ormai si parla solo tramite Internet…e pensa, adesso ognuno è chiuso nella propria stanza…il sesso virtuale è più salubre in quanto che c’è un virus che si prende tramite il sudore…è un esperimento bellico sfuggito…e il risultato è che nessuno fa l’amore”. E ci hanno preso, J-Ax e Dj Jad, anche se il declino è arrivato con un decennio di anticipo. Per noi single, un disastro vero. Perché se prima, in tempi non sospetti, rimediare del buon sesso stava diventando davvero difficile, ora siamo alla mission impossible. L’alchimia cui spesso ci affidavamo da ragazze, io e le mie amiche, era: “Ricorda, l’incontro speciale arriva sempre quando meno te lo aspetti, cioè quando non sei depilata”. Ecco, oggi si presenta la condizione ideale. Viviamo in casa ventiquattro ore al giorno e la ceretta è roba da preistoria, quindi, secondo l’algoritmo degli anni Novanta, dovremmo poter godere di una notte di sesso ogni 48 ore come minimo, e invece zero. L’altra sera, mentre contemplavo il mio gigantesco lettone matrimoniale perennemente vuoto, pensavo ai bei tempi andati quando le ore tra un giro di giostra e l’altro, tanto per essere raffinate, erano al massimo 36. Ci fu un mese di non ricordo più quale anno, e forse è meglio così, in cui mi piacevano due ragazzi contemporaneamente. E uscivo con entrambi, a loro insaputa: Mister X e Mister Y. Per la solita congiunzione astrale per cui “o tutto o niente” mi ritrovai una mattina a dover buttare fuori di casa Mister X che aveva dormito da me. Perché mentre cantava Freddie Mercury sotto la doccia, mi chiamò Mister Y: “Ehi, sono in zona tua per lavoro, salgo?”. Un “no grazie” sarebbe stato più appropriato, ma non ci riuscii. Vivevo ancora a Roma ed ero una ragazza fiera e sessualmente attiva: un’era geologica fa, insomma. Perché oggi trovare un partner “dal vivo” o “in presenza” è un miraggio, figuriamoci due. Persino tra i leggendari scaffali dell’Esselunga, dove si tramandavano storie di rimorchio assicurato, c’è ormai solo gente che impreca contro guanti, sacchetto e mascherina. Ah, ma c’è Tinder! In questi mesi, assicurano gli addetti ai lavori, ha avuto un boom di accessi, ma sugli amplessi io avrei qualche dubbio. Pensate che bello, qualche giorno per conoscersi e tre settimane per capire quando arriva il giallo per potersi incontrare e bere uno spritz alle quattro del pomeriggio. Poi all’improvviso salta tutto perché torna il rosso. E quando finalmente c’è di nuovo il via libera e ti vedi, che fai? Chiedi l'esito del tampone? Le raccomandazioni, sacrosante, dei medici: sesso ok, ma con i dpi, senza baci, e mai occasionale, solo col partner. Praticamente un non-sesso. Negli anni novanta (grazie Eyes Wide Shut!) non si faceva altro che parlare di sesso a tre, a quattro, a cinque etc. ma se prima di allora l’orgia era un tabù, oggi siamo al reato. Assembramento! 
Ah ma c’è il sexting! Un surrogato che, per quanto mi riguarda, negli anni novanta sarebbe finito dritto alla Corte dei diritti umani. Io resto della vecchia scuola e se non mi convincono dad e smart working, figuriamoci il sesso in chat. Per le coppie, se vogliamo, è ancora peggio: si sta chiusi in casa tutto il giorno insieme. Insieme a colazione, pranzo, cena, prima e dopo i pasti, in camera da letto, sul divano, in cucina. Solo i ragazzi di Friends, stando tutti nello stesso appartamento da mane a sera, riuscivano a trovare l’entusiasmo per accoppiarsi tra loro. Chiamo le mie amiche sposate o fidanzate sperando che almeno loro riescano a regalarmi una gioia, e invece nulla: la lavatrice fa la lavatrice e non si trasforma nell’appoggio di una passione improvvisa. La posa da Basic Instinct, mi racconta una che la sa lunga, non funziona più da mo’ anche perché ormai la smutandata lo è, non per malizia, ma per pessima abitudine casalinga. E ora che anche Victoria’s Secret ha sdoganato i pigiamoni scozzesi, è finita davvero. Altroché smartworking Tezenis in babydoll, archiviati nei cassetti dei comodini con la naftalina, insieme alle scatole di preservativi comprati in 3 x 2. Finirà che anche loro, quelli che un tempo chiamavamo “Goldoni”, resteranno intonsi sugli scaffali del super. A far compagnia alle penne lisce.

L'autrice
Federica Venni, freelance, 37 anni, collabora con Repubblica e Fortune. Ha due cuori - uno milanese e uno romano - e tanti lavori: giornalista, ghostwriter, esperta di comunicazione. Blogger per passione, con il suo @postibellidimilano porta Instagram in giro per la città 
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