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21 marzo 2021

Americana

La newsletter sugli Stati Uniti a cura di Alessio Marchionna

Un posto nel mondo Joe Biden ha vissuto la sua prima settimana difficile da quando è alla Casa Bianca. La prima crisi umanitaria alla frontiera, la prima grave strage con armi da fuoco, i primi screzi seri con il congresso. Ma soprattutto, il presidente ha cominciato ad addentrarsi in quel grande caos che è la politica estera statunitense. Quando un giornalista gli ha chiesto se pensa che il presidente russo Vladimir Putin sia un assassino, Biden ha risposto di sì, aggiungendo che la Russia pagherà un prezzo per aver cercato di interferire nelle elezioni presidenziali del 2020 e per gli attacchi alle infrastrutture informatiche americane. Il giorno dopo c’è stato il primo incontro di alto livello tra funzionari statunitensi e cinesi: per Washington il primo passo per reimpostare le relazioni con il suo principale rivale, dopo quattro anni in cui Trump ha fatto la voce grossa contro Pechino ma di fatto ha rafforzato la posizione della Cina nel mondo. 

Su questo e su altro – Afghanistan, Iran, rapporti con l’Europa – la strategia di breve periodo sembra essere quella di fare esattamente il contrario di quello che ha fatto Trump. E nel lungo periodo, invece? È difficile dare una risposta, e non tanto per colpa di Biden: ormai sono decenni che gli Stati Uniti non hanno una strategia coerente di politica estera.

Forze speciali statunitensi durante un'esercitazione (Air Force Senior Airman Clayton Cupit).

Se n’è occupato tempo fa Stephen Walt, analista dell’università di Harvard. Secondo Walt, da molti anni – anche prima di Trump – gli Stati Uniti fanno fatica a pensare in modo strategico e a capire quale possa essere il loro ruolo nel mondo. I motivi sono diversi. “Parte del problema, paradossalmente, sta nella posizione dominante di cui hanno goduto dopo il collasso dell’Unione Sovietica: la vittoria nella guerra fredda ha rafforzato l’idea che gli Stati Uniti abbiano la formula magica per il successo, e la convinzione che il resto del mondo non vedesse l’ora di seguire la loro leadership e, un po’ alla volta, diventare come loro”. Gli Stati Uniti si sono illusi di conoscere gli altri paesi e di poterli influenzare a piacimento. Mentre il mondo cambiava, hanno continuato a misurare la loro influenza sulla base delle potenzialità militari quando c’era bisogno di altro. “Siamo in un’era in cui la diplomazia è più importante che mai. La Cina l’ha capito e sta rapidamente espandendo le sue capacità di dialogare con altri governi. Gli Stati Uniti, invece, un po’ alla volta hanno smantellato le loro strutture diplomatiche”.

Dopo le guerre fallimentari di George W. Bush il paese ha accantonato gli interventi militari su vasta scala, ma ha continuato a puntare sulla forza più che sulla diplomazia. Semplicemente l’ha fatto in modi più mirati e meno dispendiosi. In particolare, come racconta un lungo articolo di Mark Bowden, attraverso l’utilizzo delle forze speciali. Oggi gli Stati Uniti hanno unità d’élite – come Navy seals, Delta force e Green berets – dislocate in ottanta paesi. Questi gruppi, un tempo composti da poche centinaia di soldati, oggi contano 75mila effettivi. Fanno di tutto: scovano e uccidono i leader delle organizzazioni terroristiche, guidano attacchi con i droni e raccolgono informazioni sui nemici. “Un po’ alla volta il governo ha affidato a queste unità una parte importante non solo delle operazioni militari ma anche della sua politica estera”.

La buona notizia è che Biden sembra intenzionato a ridimensionare la capacità di azione militare degli Stati Uniti nel mondo. A inizio marzo ha detto di voler lavorare con il congresso per revocare l’Autorizzazione all’uso della forza militare, un provvedimento approvato tre giorni dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Pensato per colpire Al Qaeda, è stato usato da Bush, da Obama e da Trump per giustificare operazioni militari di vario tipo, compreso l’omicidio del generale iraniano Qassem Soleimani.

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Non ci conosciamo Quando si parla delle divisioni politiche che attraversano gli Stati Uniti, ci si concentra spesso sulla distanza tra città e zone rurali. Ma le spaccature più evidenti – e più utili per capire la politica americana – sono quelle all’interno delle aree metropolitane. Il New York Times ha pubblicato una serie di mappe che illustrano in modo dettagliato una tendenza inquietante: “Democratici e repubblicani vivono segregati gli uni dagli altri, in comunità dove hanno poche opportunità d’incontrare persone con idee politiche diverse dalle loro”. Le mappe, come quella in basso, mostrano l’orientamento politico (rosso per le zone a maggioranza repubblicana, blu per quelle a maggioranza democratica) e sono state realizzate incrociando i dati demografici con quelli sulla registrazione alle liste elettorali. Nelle città prese in considerazione vivono 180 milioni di elettori, la maggior parte di quelli totali.

(The New York Times)

Ryan Enos, uno dei ricercatori che hanno condotto lo studio, spiega perché è una tendenza pericolosa: “In generale, quando i gruppi politici si separano gli uni dagli altri, bisogna aspettarsi cose brutte”. È successo con la segregazione razziale e con le fratture religiose ed etniche: la separazione fa crescere la demonizzazione reciproca e rende più difficile accettare la spartizione del potere e creare solidarietà tra gruppi diversi. I ricercatori hanno anche scoperto che gli stili di vita stanno diventando sempre più allineati alle divisioni politiche: “Se vivi in città e usi i trasporti pubblici è probabile che tu sia democratico; se vivi in una grande casa fuori città e ti sposti in macchina tendi a essere repubblicano”.

Washington, 1971

Negli anni sessanta i giovani che protestavano contro la guerra in Vietnam facevano spesso una domanda ai politici: “Siamo abbastanza maturi per andare a combattere ma troppo giovani per votare?”. Durante la seconda guerra mondiale, il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva abbassato a 18 l’età della leva militare, ma quella per votare era rimasta a 21. All’interno del movimento pacifista nacquero dei gruppi che facevano pressione sui politici statali e nazionali per cambiare le cose. Era una battaglia complicata, perché le fratture generazionali erano enormi e in molte famiglie – e nella società in generale – era diffusa l’idea che i giovani fossero irresponsabili e inaffidabili. Ma alla fine le pressioni ebbero successo, e nel 1971 il congresso approvò il 26° emendamento, che portò a 18 anni l’età minima per votare.

Oggi i giovani attivisti che vogliono più voce in capitolo sulle scelte politiche – soprattutto sul cambiamento climatico – ricordano questo precedente per chiedere di estendere il diritto di voto a chi ha 16 anni. Un dibattito che di recente si è aperto anche in Italia, per via di una di Enrico Letta, neosegretario del Partito democratico. Negli Stati Uniti la differenza principale tra oggi e cinquant’anni fa riguarda l’orientamento dell’opinione pubblica: negli anni sessanta gli attivisti di destra e di sinistra erano uniti nella battaglia per portare l’età di voto a 18 anni, mentre oggi sono pochi gli statunitensi d’accordo con l’idea di abbassarla ancora. Secondo un sondaggio condotto qualche tempo fa, il 75 per cento degli elettori registrati è contrario a lasciar votare le ragazze e i ragazzi di 17 anni, l’84 per cento si oppone al voto per chi ha 16 anni. 

A essere contrari sono soprattutto i repubblicani, consapevoli che un provvedimento del genere avvantaggerebbe il Partito democratico, che ha molto più sostegno tra i giovani, soprattutto quelli che appartengono alle minoranze.

Dibattiti

Dopo che un uomo ha ucciso otto persone – tra cui sei donne di origine asiatica – in due centri massaggi di Atlanta, negli Stati Uniti si è acceso un dibattito su come definire questa strage. Robert Aaron Long, l’uomo che ha sparato, era mosso dal razzismo? Dalla misoginia? Dal razzismo e dalla misoginia insieme? Oppure è stata “solo” l’ennesima strage in un paese dove ci sono troppe armi in giro?

La maggior parte degli articoli usciti negli ultimi giorni, tra cui questo del New York Times e quest’altro del Washington Post, ha sposato implicitamente la tesi del reato d’odio, per via del contesto nazionale in cui è ha avvenuta la strage: da mesi gli attacchi contro gli asiatici americani e contro gli immigrati asiatici sono in costante aumento – anche a causa della retorica anticinese dell’ex presidente Donald Trump – e a essere colpite sono soprattutto le donne.

Per altri non ci sono prove per parlare di un attacco razzista. Nella sua newsletter, il commentatore conservatore Andrew Sullivan sostiene che, sulla base degli elementi emersi finora, Long potrebbe aver agito spinto dal fanatismo religioso, e dalla volontà di eliminare le sue tentazioni sessuali (frequentava i due centri massaggi in cui ha aperto il fuoco). Sullivan crede che i giornali mainstream siano troppo ideologici, cioè usano l’accusa di razzismo per spiegare qualsiasi evento. 

La questione è complessa anche perché è difficile, dal punto di vista giudiziario, definire un crimine d’odio. Come spiega un articolo di Time: “Non basta che tutte le vittime appartengano allo stesso gruppo razziale o religioso, o allo stesso genere. Le forze dell’ordine devono provare che in passato l’assalitore ha mostrato pregiudizi, nelle parole, nei comportamenti o nelle affiliazioni”. Questo spiega perché negli Stati Uniti le denunce di reati d’odio sono poche, e pochissime quelle che hanno portato a un’incriminazione e a un processo.

In breve

  • Il numero di persone che cercano di entrare negli Stati Uniti dal Messico è cresciuto nelle ultime settimane. L’Economist (tradotto in italiano) racconta la situazione alla frontiera.
  • Intanto la camera dei rappresentanti ha approvato due provvedimenti per regolarizzare quattro milioni di immigrati irregolari. È difficile che il provvedimento passi al senato, dove i repubblicani hanno i numeri per bloccarlo.
  • Come Cina e Russia, gli Stati Uniti cominciano sfruttare il vaccino per il covid-19 per scopi diplomatici: manderanno quattro milioni di dosi di vaccino AstraZeneca a Canada e Messico.

Consigli

Da ascoltare Negli anni settanta un serial killer terrorizzò la comunità Lgbt di San Francisco. Non fu mai trovato. Un nuovo podcast del San Francisco Chronicle riapre il caso e cerca di risolverlo.
Da leggere Di recente è uscito per Jaca Book Il sogno e la ragione, di Daniele Biacchessi, che racconta come i movimenti di protesta hanno cambiato la politica statunitense. Dello stesso editore consiglio vivamente il libro fotografico This Hard Land. Sulle strade di Springsteen, di Daria Abbado e Gino Castaldo.

Su Internazionale questa settimana

Sul settimanale Tolo News sul nuovo piano dell’amministrazione Biden per l’Afghanistan. Il New York Times sulle opera d’arte digitali di Beeple. Joan Acocella racconta come l’America ha scoperto Gianni Rodari.
Sul sito Pierre Haski spiega perché Biden alza la voce contro Cina e Russia.

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