Tutti i nostri sbagli
di Corinna De Cesare
Gli sbagli nel titolo. Perché alla fine ci si libera dall’inadeguatezza solo mostrandola, dopo una vita intera passata a farci a botte. “Vivevo ogni mia relazione nel costante timore di non essere abbastanza affascinante, abbastanza intelligente o bella o simpatica o culturalmente impegnata per lo standard cui mirava il compagno di turno”. Lo dice Marta, la protagonista di “Per tutto il resto dei mie sbagli” (Mondadori), lo ha detto e provato per tanto tempo anche Camilla Boniardi, sui social Camihawke. Oltre un milione di follower su Instagram, un romanzo che a una settimana dall’uscita è già in testa alle classifiche. Eppure non è tutto oro quel che è social. Qual è il vissuto degli influencer? E quali sono le loro debolezze, le loro emozioni, i loro intimi combattimenti? Inizia da oggi un ciclo di interviste a personaggi noti sui social, a scrittrici, autrici, creator per indagare il loro lato umano e letterario. Interviste fatte a modo nostro e quindi cicliche e piene di vita. Quella fuori dai social fatta di inciampi, insicurezze e sbagli.
“Ci sono persone più indipendenti, autonome, meno condizionate dal parere esterno – racconta Camilla -. Io invece al contrario, per anni ho sempre messo il parere di chi mi circondava davanti al mio. Ero terrorizzata dal deludere le aspettative degli altri. Mentirei se ti dicessi che ancora oggi non sono condizionata da quello che leggo su di me e quello che mi torna indietro dalle persone che mi seguono perché comunque ho un carattere che ha bisogno di sostegno, incoraggiamento. Marta in questo senso, la protagonista del mio romanzo, mi somiglia molto, anche se appartiene più alla me del passato”.
Sindrome dell’impostore ne abbiamo?
Ehhh e se scopri come si guarisce, chiamami. Io tutt’ora mi ritrovo sempre a fare cose in cui ho grande timore di non riuscire e quando ci riesco, penso di aver ingannato tutti. Ho la costante preoccupazione che qualcuno mi scopra, che capisca che non sono proprio così brava, così intelligente, così bella, così simpatica come dicono e purtroppo è un circolo vizioso brutto da cui è difficile uscire. Forse basta ogni tanto dirsi “brava” per alcuni obiettivi raggiunti, senza prefiggersi cose impossibili. Darsi una pacca sulle spalle da sole aiuta.
Da dove arriva tutta questa insicurezza?
Io penso che chi è maggiormente esposto sui social rappresenti la fetta più insicura della popolazione. Più follower hai e più sei insicura, almeno parlo per me, nel mio caso funziona così. Lavorare sulle piattaforme social è bellissimo ed è il lavoro che ho scelto ma questa esposizione continua è anche "triggerante", hai bisogno e devi confrontarti con tantissime persone simultaneamente e c’è anche un’alta possibilità di non esprimersi nella maniera più corretta. C’è una preoccupazione costante sul consenso: sto facendo la cosa giusta? La sto dicendo nel modo giusto? Se fai una cosa bella, hai una pioggia di affetto incredibile ma se fai una cosa sbagliata rischi una pioggia di merda enorme, tanto per usare un francesismo.
La cosiddetta shitstorm
Sui social è tutto estremizzato e questo a volte è destabilizzante, per questo dico che l’insicurezza è una caratteristica che accomuna chi è molto attivo e lavora sul web. Siamo umani e il giudizio continuo, alla lunga destabilizza.
Qual è il tuo rapporto con il consenso?
È un rapporto burrascoso ma ora cerco di non far dipendere più la mia accettazione dal parere degli altri. Inutile dirti che non ce l’ho fatta da sola ma con l’aiuto delle persone care, gli amici, la famiglia, sono state fondamentali. Il percorso per l’autostima e l’accettazione è un percorso personale e privato ma chi ti circonda fa tutta la differenza. Grazie al mio compagno per esempio io non ho più vissuto quella sensazione di non sentirmi mai abbastanza: non mi fa sentire inadeguata, mi gratifica, mi ama e me lo comunica ogni giorno in maniera molto chiara. E quella è una fortuna perché devi trovare la persona che parla il tuo stesso codice amoroso. Spesso nella vita incontriamo persone che ci amano ma che non parlano il nostro stesso linguaggio e quindi si creano queste incomprensioni per cui si pretendono dall’altra persona delle cose che l’altra persona non è propensa a darti. Non è che non ti ama, ma ha un modo diverso dal tuo di comunicare l’amore.
Quanto è stata importante per te in questo percorso di crescita personale l’amicizia femminile?
Imprescindibile. Alcune donne sono state un bastone non della vecchiaia ma dell’adolescenza. Sono state per prime loro a scardinare in me quella sensazione di sbagliare sempre, di non raggiungere mai gli obiettivi giusti; sono state loro a capirmi quando non mi sentivo mai nel posto giusto al momento giusto. Il loro sostegno e il fatto che loro vedessero in me delle cose che io non riuscivo a vedere da sola.
Gli altri siamo noi.
Te lo dicono e non ci credi, te lo dicono ancora e non ci credi ma alla quinta volta in cui si avvera quello che dicono loro, alla fine tocca fidarti per statistica.
Si combatte ancora tantissimo contro le discriminazioni di genere. L’hai mai provata in prima persona?
Sono cresciuta in un ambiente familiare assolutamente paritario, ho visto mia madre smontare lampadine e riparare caloriferi, ho visto mio padre fare milioni di lavatrici e lavastoviglie. Mi sono accorta delle disparità crescendo, quando ho capito che fuori casa era diverso, ma sono sempre stata sicura del mio essere donna, di cosa volessi fare e di dove volessi arrivare. Eppure anche tra chi mi circonda, e ascoltando le esperienze delle mie amiche credo che ci sia ancora tanto lavoro da fare in tema di disuguaglianze. Abbiamo vissuto per anni immersi in una cultura patriarcale ed è importante sradicare tutto, a partire dal linguaggio e dai modi di dire, dalle parole che non vanno dette. Per fortuna è un momento storico in cui sento molta voglia di autodeterminarsi, c’è tanto attivismo, vedo donne che infondono coraggio alle altre donne, vedo tantissima voglia di riscatto. 
C’è voglia di riprendersi in un certo senso anche la narrazione di se stesse, a partire dal ciclo. La tua prima volta?
Prima media, abbastanza traumatica, devo essere onesta. Nonostante abbia due genitori medici quindi sono abituata a vivere il corpo in maniera scientifica. Io sapevo già tutto, mia madre me l’aveva spiegata in lungo e largo, una vera divulgatrice scientifica, si direbbe oggi sui social. Ma la prima volta ho comunque pensato “oddio cosa sta succedendo”. E poi ero innervosita dal fatto che mia madre lo avesse raccontato a tutti, telefonate alla nonna, la zia. Ecco se devo ricordare una sensazione provata all’epoca penso al fastidio, forse perché inconsciamente ce lo portiamo dietro quel retaggio, la vergogna del ciclo. Spero che le bambine di oggi la vivano meglio di come l’abbiamo vissuta noi, non dico con il megafono alla finestra ma come una cosa normale, bella, felice e pure se lo sanno la nonna, la zia, la vicina di casa, chissenefrega! 
 
L'autrice
Corinna De Cesare, 38 anni, è giornalista del Corriere della Sera. Proud founder di thePeriod,
il 22 aprile è uscito il suo romanzo d'esordio: "Ciao per sempre", Salani editore

 
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Non è divertente
di Isabella Borrelli
È estate quando io e Valentina usciamo. È bellissima, ha i capelli lisci e biondi sulle spalle scoperte, indossa un top nero di pizzo e scarpe con la zeppa. Io ho messo una gonna che sogno mi sfili appena possibile. Andiamo a una serata del Glamorize, un momento di incontro LGBT+, di eventi in tanti locali diversi a Roma. Serate “gay friendly” direbbero gli altri. E scrivo "altri" perché a me non piace questa definizione che sento come ghettizzante ma è uno spazio dove sono costretta a rifugiarmi perché fuori bisogna avere comunque a che fare con il giudizio e la violenza. Mi piace il Glamorize perché non ha un luogo fisso, simbolicamente esploriamo la città di Roma: ogni locale è aperto per noi. È come disallineare le sbarre di un ghetto che non si vede ma si sente. Quando capita infatti di parlare di “serate gay” con persone eterosessuali, capisco che dal loro punto di vista non è percepibile il motivo primario da cui si originano: sono uno spazio sicuro dove poter semplicemente baciare chi ti piace senza il timore di ricevere occhiatacce o commenti sgradevoli. Quando tu vuoi solo essere bella per la persona che ti piace, vuoi fare colpo, essere romantica, seducente, mangiare una cosa insieme, bere, ballare e stringere una mano come tutte le altre persone del mondo. Infatti, nella mia esperienza, è comune che “le amiche e gli amici etero” si sentano in qualche modo al sicuro quando vengono a queste serate e forse non ne comprendono profondamente il perché. Il perché, secondo me, è questo: senti che puoi essere liberə.
Ma torniamo a me e Valentina. La serata è davvero bella. Beviamo un po’ troppo, incrociamo le gambe sotto al tavolo e ridiamo, chiacchieriamo. Poi, mentre torniamo verso la macchina, d’un tratto Valentina mi afferra e mi tira a sé. Sento il suo petto minuto contro il mio, le labbra che schiudono le mie. Ci baciamo come decine di persone nei vicoli immortali di Roma, sotto uno di quei lampioni con la luce arancio di Trastevere. Non ti puoi sbagliare, quei lampioni stanno sono là. Il profumo di Valentina mi arriva dritto in testa. Continuiamo a baciarci e tenerci per mano, camminiamo e parliamo, la direzione è quella di casa mia.
Il cuore mi batte fortissimo. Mentalmente faccio un check up di me stessa (quali mutande hai messo Isa? Mica ti sei tagliata tutta tipo the Nightmare con la lametta prima di uscire?) e poi della casa (hai messo a posto? La situazione è un minimo decente? Hai buttato la spazzatura?). Insomma, penso alle solite cose. E poi di colpo non ci penso più quando lei si gira e mi dice che è felice di essere lì con me. Mi fermo, la guardo nella controluce dei lampioni, osservo i suoi occhi chiarissimi. È in quel momento che sento urlare “Lesbiche!” nella piazzetta vicino casa mia. Istintivamente le stringo forte la mano. Ho paura ma non voglio darla a vedere, mentre mi giro per capire chi ha urlato. Individuo un gruppo di ragazzini mentre riprendiamo a camminare ma a quel punto non ridiamo più, né ci guardiamo trasognate.
“Fate venire anche noi!” - urlano ancora e iniziano a seguirci piano. Affrettiamo il passo e cominciamo a essere spaventate. Non ci teniamo più la mano, siamo aggrappate l'una alla mano dell’altra. Ci seguono ancora, ridendo e si divertono a raccontarci di come vorrebbero prender parte alla nostra serata. La strada da percorrere per fortuna è quasi terminata: siamo vicino al mio portone, il cuore mi arriva in gola, poi all'improvviso la mia testa inizia a calcolare tutte le infinite conseguenze di fargli sapere dove abito, indirizzo e numero civico compreso. Sono a un piano terra, la cosa - che prima di allora mi era sempre sembrata piacevole nel poter osservare i passanti così vicini - d’un tratto mi raggela. Così, nella mia serata perfetta, mi sento costretta a entrare in un portone che non è il mio, travolgendo un signore che sta infilando la chiave nella toppa. È lui a voltarsi - lui, sempre un lui - e a guardare quei ragazzini. Poi guarda me e nei suoi occhi mi accorgo di averli lucidi. Non ci diciamo niente, stringo la mano di Valentina fino a sbiancarmi le nocche. “Che volete voi?” tuona ai giovani. Loro ridono, pensando a un gioco. Noi non ci siamo divertite per niente e vorrei poter scrivere che queste cose non succedono quasi mai e invece succedono (quasi) sempre. Succedono ogni volta che una persona eterosessuale trova incredibile che ben il 7% della popolazione italiana sia LGBT+ e ogni volta che si pensi che molestare verbalmente una donna sia in realtà farle un complimento vivace, ogni volta che si ritiene che punire gli atti violenti nei confronti delle persone LGBT+ sia una limitazione della libertà di opinione. Una volta, una persona mi ha chiesto perché frequentassi così poco le persone eterosessuali e cisgender. La risposta che gli ho dato è stata “È bello stare con chi ti capisce. Vorrei ne facessi parte anche tu”. Ho sfidato questa persona, per gioco, una sera a uscire e a dare un bacio per strada a una persona del suo stesso genere. O a tenerle la mano mentre sono a tavola durante tutto il pasto. O a dire, mentre si è a un pranzo/riunione, che si sta insieme a una persona dello stesso sesso. E se il solo pensiero ti fa intuire il risultato di questo esperimento di empatia, hai già una risposta del perché il Ddl Zan sia necessario. No, non punisce la libertà di pensiero di quei ragazzini di masturbarsi pensando a me e Valentina insieme. Li punirebbe per averci inseguite, intimidite, insultate e chissà cos'altro se non avessimo varcato quel portone trovando un nostro alleato.


p.s. poi io e Valentina l’amore l’abbiamo fatto lo stesso quella sera. Abbiamo imparato ad amarci anche da solə, ma sarebbe bello che ci sentissimo anche tutelatə dallo Stato di cui siamo cittadinə.
L'autrice
Isabella Borrelli, [1989, she/they] è (digital) strategist per Latte Creative. Attivista femminista intersezionale e LGBT+, ha co-fondato un think tank femminista Think Period e collabora per diverse realtà. Assistente di cattedra e cultrice della materia in Gender Politics alla LUISS Guido Carli.
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Cosa non fare se conosci
una persona trans

di Eytan Ulisse Ballerini

Essere un ragazzo trans in una società binaria come la nostra non è mai un fatto strettamente personale. Non sei solo tu a transizionare verso l’altro genere, ma tutte le persone che ti stanno attorno devono farlo con te. E per chi come me ha un passing* molto elevato ma non fa mistero della propria condizione trans a volte ci si imbatte in domande o situazioni poco piacevoli. Ma se l’80% - dati americani - delle persone cisgender non conosce personalmente una persona trans, come è possibile sapere come comportarsi? Una delle situazioni poco piacevoli in cui mi sono ritrovato è stato quando ho scoperto che il mio essere trans era stato raccontato a buona parte dell’azienda nella quale lavoravo dopo averlo detto al primo colloquio. Sembrerà strano parlarne già da subito, soprattutto perché i miei documenti sono aggiornati, ma preferisco sempre testare le acque e non dovermi ritrovare in un ambiente di lavoro omotransfobico - piccole precauzioni che una persona trans deve avere per navigare il mondo del lavoro italiano - . Quello che io ho subito da parte dei colleghi ha un nome ben specifico e per molte persone trans è una vera e propria violenza, si chiama outing. Questa pratica consiste nel raccontare a terzi che una persona è transgender; le motivazioni per le quali si può arrivare a farlo possono essere tante, ma nessuna è valida. Raccontare o meno della propria esperienza trans spetta solo ed esclusivamente alla persona interessata. Quando mi è successo la sensazione che ho provato è stata quella di violazione, una parte fondamentale di me era stata data in pasto ad altri senza che io lo sapessi. Questa sensazione di disagio nel sapere che la tua vita non ti appartiene ma sia fonte di discussione, a disposizione di curiosità altrui che - per quanto comprensibili perché non capita tutti i giorni di incontrare persone T - non ti portano rispetto, soprattutto se la persona che pone la domanda è una persona appena conosciuta. Mi sono trovato in una situazione simile mentre parlando con una ragazza, in una pausa da un lavoro che stavamo facendo insieme, ho fatto coming out (cioè ho raccontato di mia spontanea volontà di essere trans) e la seconda domanda che mi è stata posta è “come ti chiamavi prima?”. Io fortunatamente non ho problemi con il mio deadname o con il mio passato, ma non per tutt* è così. Alcun* soffrono anche solo nel pronunciare il nome assegnato loro alla nascita. Alcun* non hanno nessuna voglia di condividere con perfetti sconosciuti informazioni sul loro passato, o sulla loro intenzione o meno di effettuare operazioni, o di qual è la loro condizione attuale. Il corpo trans e il proprio passato appartengono solo ed esclusivamente alla persona T che non ha nessun dovere di condividere o anche solo educare le persone che ci stanno attorno. A volte è davvero estenuante doversi confrontare con micro-aggressioni continue, a domande invadenti oppure a continui misgendering; per me è stato molto difficile soprattutto all’inizio, quando prendevo gli ormoni solo da qualche mese e non avevo la barba che mi proteggeva da sguardi altrui e il passing non era buono come ora. Dopo aver fatto coming out come ragazzo T, ancora molte persone faticavano a utilizzare i giusti pronomi e continuavano a rivolgersi a me al femminile (questo è il misgendering). Per quanto l’ho sempre presa con filosofia, la sensazione di non essere preso sul serio era fortissima. Perché non venivo riconosciuto come ragazzo? Perché nonostante avessi esplicitato che i pronomi da utilizzare nei miei confronti erano quelli maschili, c’era chi ancora dopo mesi utilizzava il femminile? L’abitudine può essere una scusante all’inizio, poi è lecito pensare che sia solo pigrizia mentale o peggio malafede. Sentirsi chiamare con il proprio nome e i pronomi d’elezione (poi mannaggia alla lingua italiana che declina praticamente ogni cosa al femminile ed al maschile - niente neutro per noi) ti fa sentire vist* e valid*. E cosa vale di più? Il rispetto che si deve alla persona trans, o la difficoltà della persona cis ad adattarsi a questo cambiamento? Essere buon* alleat* vuole dire imparare a non mettere al centro il proprio disagio, difficoltà o la propria curiosità ma lasciare spazio alla persona trans, alle sue esigenze ed al suo inalienabile diritto a ricevere rispetto. 
 

*(termine inglese che sta a significare “passare” per una persona cisgender - cioè una persona che si identifica con il sesso biologico assegnato alla nascita)

L'autore
Eytan Ulisse Ballerini, 31 anni, vive a Milano dove lavora come responsabile di post produzione in una piccola casa di produzione. Nata come Penelope, a 27 anni ha affrontato una transizione medicalizzata di genere. È stato uno dei 12 ospiti nella serie podcast di Audible «Coming out: storie che vogliono uscire», ospite nel podcast Equalitalk e di Palinsesto femminista
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