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the moony files #31

Buongiorno, bentornato nella fanzine digitale di Lunetta11.
The moony files è la newsletter dedicata alla nostra arte, ai nostri artisti e al nostro territorio.

 
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SABATO 26 NOVEMBRE

ARVEST! PHOTO FEST E CLUB TO CLUB
A BORGATA LUNETTA

 

Sabato 26 novembre Lunetta11 si sdoppia e lo fa riunendo le sue due anime. A partire dalle 11:00 di mattina infatti inaugura la seconda edizione di Arvest! Photo Fest, curato da Giada Storelli e Francesco Gili. Una mostra in cui potrete ammirare i lavori di tre fotografi chiamati ad investigare il rapporto tra arte e territorio nei luoghi dell'Alta Langa: Pietro Bucciarelli, Camilla Glorioso e Marco Deieso.

A partire dalle 15:00 invece, in collaborazione con il festival di musica elettronica Club2Club al via una sessione di ascolto condotta dall’affermato giornalista musicale Alberto Campo

 

Il trait d’union che sancirà questi due momenti sarà puramente sensoriale: una doppia degustazione, dal km zero del Caseificio Campraté che proporrà un assaggio di formaggi di pecora e latte crudo di propria produzione. Accompagnati naturalmente dal vino. Ma, sorpresa, non quello cui siamo abituati nelle Langhe o più in generale in Italia. A prendersi la scena sarà Chicca Vancini, sake sommelier, fondatrice e proprietaria di Ailimē, locale dal “mood italiano e l’attitudine giapponese”, che ci farà gustare una selezione di sake selezionati apposta per l’occasione. Abbiamo raggiunto direttamente lei (che tra le altre cose ha passato una vita proprio nell’industria musicale) per farci raccontare meglio di lei, dei suoi progetti e di cosa combinerà sabato. Qui di seguito trovate l'intervista.


IL SAKE DI CHICCA VANCINI A LUNETTA11
 

Partiamo con una descrizione di chi sei, cosa fai, cosa hai fatto? 

È difficile perché ho fatto un sacco di cose. Mi focalizzo sull’ultimo periodo della mia vita, che in un certo senso si basa sulla storia della mia famiglia - sono figlia di ristoratori emiliani. Io in un certo senso sono scappata da quell’ambiente e sono entrata in quello della musica, ci ho lavorato quasi sedici anni. Poi nel 2015 ho aperto la mia prima attività di ristorazione sotto la Mole a Torino, sono diventata sommelier e in un secondo momento ho incontrato il Giappone, diventando anche sake sommelier. 

Come dicevi vieni da una famiglia di ristoratori ma hai lavorato per tanti anni nell’industria musicale, ora torni alle origini. Ci sono somiglianze tra i due mondi? 

Tendenzialmente interpreto i due lavori come molto simili: prima di tutto hai a che fare con le persone e soprattutto con qualcosa di cui le persone fruiscono. Come mi piaceva raccontare un disco o raccontare i musicisti che hanno qualcosa da dire, allo stesso modo amo lavorare con il vino e con il sake perché amo raccontare la sua storia, la storia del suo popolo e della sua cultura. 

Come sei arrivata a maturare la decisione di fare questo cambio di vita? C’è stata un’epifania in particolare? 

Lo switch è arrivato appunto intorno al 2015, quando le offerte di lavoro della discografia mi avrebbero portato a lavorare per una grossa casa discografica, a Milano. Io non volevo lasciare Torino e il modo di fare e comunicare musica aveva ormai subito un cambiamento importante rispetto a quando avevo iniziato. Io sono cresciuta con quella dei fine novanta, primi duemila, la sentivo come descrittiva della società e vicina al mio modo di comunicare. Quello a cui penso sono tanti concerti, budget per fare interviste di persona, per produrre materiale promozionale, showcase, anteprime. C’era un business che aveva molto senso e si sposava con la mia visione del mondo della musica. Poi è cambiato, non dico peggio o meglio, io semplicemente non avevo voglia di seguire quella mutazione. Io ho seguito tutti gli step, da ufficio stampa a tour manager alla produzione. Il cambiamento che si era profilato di base mi avrebbe portato a sedermi davanti a un computer. I budget ci sono solo per i grossi nomi, non più per le realtà che ne avevano bisogno per raggiungere un livello più alto. Se lo togli a loro e lo dai a quello già grosso non ha senso per me.

E quindi hai aperto un tuo locale 

Il primo posto che ho aperto era un bistrot con palco, in centro a Torino. “Da Emilia”. Ho pensato che mi mancava la musica live e che volevo aprire il mio posto, il mio palchetto. In due anni ho fatto più di trecento concerti, un giorno sì e uno no praticamente. Ogni tipo di musica, dalla classica all’open mic ai concerti di band. Il collegamento con la musica quindi è sempre rimasto, anche ora con il mio sake bar. Sul bancone, un metro e mezzo è dedicato a dischi e mixer. Ho fatto tutto il giro in un certo senso, partendo da mandare i gruppi a suonare in giro nei locali a farli suonare nel mio. 

Insomma alla fine rientra tutto in una visione d’insieme. 

Ho deciso di volgere le mie skills su un’altra mia passione, sul buon vino e buon cibo. Quando sono stata chiamata da Francesco e Claudia per essere parte integrante di questo evento del 26 novembre sono stata felice perché ogni cosa che faccio deve avere una ragione culturale dietro. È fondamentale nutrire una rete che crea cultura, senso critico. È quello che faccio quando propongo del sake, del vino di un certo tipo, perché sta a me spiegarlo mi rendo conto che non è un approccio facile a volte. 

Mi parli quindi del sake e proprio di come pensi possa essere recepito da una terra cultrice del vino come la nostra? 

Stiamo parlando di un paese che ha la storia antica tanto quanto quella italiana. Se prendiamo la cartina del Giappone e la mettiamo su quella dell’Italia vedremo che sono simili, anche a livello climatico. Il sake è un fermentato di riso non un distillato. Il procedimento quindi è simile a quello del vino e della birra, un po’ a metà. Insomma non è così distante da noi e i giapponesi infatti lo consumano durante i pasti, come noi con il vino e la birra. È una bevanda che narra veramente la storia di un paese, ci sono poco più di mille distillerie in tutto il Giappone (solo in Piemonte c’è più del doppio di cantine per dire), è quindi molto prezioso perché racconta di qualcosa che sta scomparendo. Partendo dalla storia più recente, dopo la seconda guerra mondiale gli americani avevano imposto birra e whisky, e i giapponesi quindi dopo gli anni quaranta avevano praticamente abbandonato la produzione del sake. Le cantine che sono sopravvissute sono nate nel 1700/1800. Solo ora, negli ultimi anni, il livello di consumo del sake si è alzato e stanno capendo ora come fare. 

Alcune parti del sake si sposano perfettamente con i sapori italiani. Tutto ciò che è umami ad esempio pomodoro, prosciutto crudo e parmigiano reggiano. Allo stesso tempo però il sake è basico mentre il vino è acido, quindi entra in relazione con il cibo in modo completamente diverso. Accompagna il cibo in modo elegante, quasi in secondo piano ma in senso proficuo. Tendenzialmente se uno va a cena con un vino importante il vino monopolizza l’attenzione, con il sake invece hai una visione complessiva del pasto. Secondo me può essere veramente una bella scoperta vista l’attenzione che noi italiani riserviamo al cibo. Poi potremmo parlare della tecnica, che è antica e affascinante, dall’uso di strumenti in solo legno a riti come il cantare, tutto un discorso legato al suono che sta in cantina. Non è solo una questione romantica o magica. 

Siamo tornati al suono. Cosa succederà sabato, cosa stai preparando? 

Ci saranno due momenti diversi, una prima parte legata all’inaugurazione della mostra fotografica di Arvest con una prima degustazione; porterò bassa gradazione tra i 9 e gli 11 gradi e sarà associata ai formaggi. Saranno serviti a temperatura ambiente e tiepidi. Nella seconda parte, durante il laboratorio di C2C sicuramente sempre temperatura ambiente e calda ma con gradazione più alta. Sarei tentata di darlo alle persone mentre partecipano alla lezione di ascolto. Mi fa anche piacere perché ho lavorato tre anni per C2C e con Alberto Campo stesso che terrà il workshop. Sicuramente il fatto che le persone viaggeranno attraverso l’ascolto si sposa bene con le mie proposte olfattive e gustative che proporrò. 

Photo Credits : CiaoLardo

LOCAL TIPS

INTERVISTA A MARCO MAGLIANO
CO-FONDATORE DI BOSCHETTO ALTA LANGA E DELLA CANTINA MAGLIANO

Lunetta11 continua ad esplorare il territorio in cui si trova andando a caccia delle persone, dei progetti e delle realtà che stanno rivoluzionando l’Alta Langa proiettandola verso il futuro grazie al rispetto e la conoscenza del suo passato e delle sue tradizioni. 

Quest’oggi dunque parliamo con Marco Magliano, giovane presidente del Parco Culturale Alta Langa, fondatore e proprietario (assieme al fratello Giovanni) di Boschetto Alta Langa, azienda biologica vitivinicola e Bed & Breakfast. Un progetto ambizioso di due “ritornanti” per rilanciare una cascina storica, denominata Cascina Boschetto che si trova tra Camerana e Monesiglio. Addirittura con alcuni manufatti agricoli e una antica cappella al suo interno. 

Abbiamo direttamente raggiunto Marco per farci raccontare meglio tutto quanto. 

Ciao Marco, partiamo dal principio: chi sei, da dove vieni, dove vuoi andare? 

Io e mio fratello Giovanni abbiamo una cantina con annessa struttura di ospitalità rurale proprio nella valle di fronte a Mombarcaro. Abbiamo restaurato un’antica cascina, di fine Ottocento. È un’attività nata da poco, nel 2018, con la voglia di riscattare il territorio tramite servizi di qualità, recuperando un edificio antico attraverso materiali a chilometro zero. Legno, pietra a vista, muretti a secco. Insomma seguiamo quella che è un po’ una moda degli ultimi anni sull’utilizzo di materiali di recupero. Proprio ora stiamo raccogliendo i primi frutti, letteralmente (il vino) e con la recente apertura anche del Bed & Breakfast.

Come è nata quest’idea? 

Siamo partiti da zero, non c’erano terre o vigneti di famiglia. Poi il fatto principale è che entrambi veniamo da un mondo completamente diverso: siamo entrambi ingegneri. Io ingegnere civile, ho girato il mondo fino ai trent’anni e poi ho deciso di tornare a casa, ora ne ho trentaquattro. 

Ma avete sempre avuto quest’idea o è stata qualcosa di nuovo, una scelta maturata negli ultimi anni? 

C’è sempre stata la voglia di lavorare la terra, ne siamo sempre stati affascinati. C’era l’idea di creare un progetto sul territorio di queste zone un po’ disabitate e abbandonate anche a livello turistico; fino a vent’anni fa non c’era nessuno. Non c’è mai stata però la messa a fuoco concreta su cosa fare. Certo il vigneto è sempre stato una passione di famiglia, quindi magari quello ha aiutato. Poi una volta messo su, pensare al B&B è stata una prolunga naturale, per fornire un servizio ottimo e completo a chi viene. 

Come mai? 

Per una questione di mentalità. La generazione dei nostri nonni e genitori sono state investite per la prima volta dalla comodità e dal dinamismo della città. Qui era una vita difficile e dura. Prima non c’era proprio comparazione con la città, quindi andava anche bene, non ci si pensava, adesso invece può essere difficile vivere per altri problemi pratici, ad esempio l’istruzione. Insomma si va a due velocità diverse. 

Soprattutto post covid questo di una velocità minore e più umana, diciamo non cittadina, è un discorso che è stato nuovamente valorizzato 

Sì assolutamente, sta tornando ad essere una qualità cercata da molti.

Raccontaci un po’ delle tue impressioni dell’Alta Langa, come l’hai vista cambiare in rapporto alle nuove proposte e attività come la vostra 

Siamo veramente ad un nuovo inizio come sviluppo turistico. Certo turisti ce ne sono ma principalmente stranieri. Chi viene qui va ancora alla ricerca dell’elemento naturale e naturalistico, zone meno antropomorfizzate, dove la natura è il protagonista principale. Insomma luoghi dove ritrovare quello che in città forse inizia a mancare. C’è da dire che le cose piano piano stanno cambiando e si muovono sempre più anche grazie alla vicinanza con le basse langhe e il suo turismo enogastronomico. Lì magari c’è più caos e brandizzazione, qui ancora è tutto da scoprire. Per il resto noi operatori ci muoviamo per lo più ancora in “solitaria”, mancano le istituzioni e gli strumenti connettivi. Anche se negli ultimi anni si muove qualcosa, iniziamo ad incontrarci; un movimento stile Pangea, ma in fermento. Starà a noi cercare di non fare gli errori fatti altrove. Ad esempio lasciare le policolture e la varietà naturale e paesaggistica sarebbe un errore, non rovinare le caratteristiche proprio di questi luoghi. Caratteristiche che per anni in realtà sono state considerate “difficili”.

Al di là del progetto di Boschetto mi parli meglio del tuo impegno sul territorio, nel suo associazionismo? 

Ci sono due grossi movimenti: Roccabianca, un’associazione fondiaria, e il Parco Culturale Alta Langa. Ci sono sempre più associazioni nella zona, che rispondono ad un desiderio anche culturale appunto. La prima che ho citato mette insieme proprietari di terre abbandonate. Per fare un esempio, abbiamo vinto un bando per pulire terrazzamenti e portarli alla loro funzione di origine. È stato ripristinato un vecchio mandorleto, da lì il nome Rocca Bianca visto lo spettacolo dei fiori in primavera. L’associazione culturale invece nasce dieci anni fa come movimento, ha sempre operato nell’organizzazione e diffusione di piccoli eventi. A partire dall’edilizia popolare, ma anche film e musica. Per fare un esempio è stato fatto un piccolo film festival a tema agricoltura e rapporto uomo-natura, poi concerti di musica locale. Negli ultimi anni questa associazione ha concentrato tutte le energie su scuole di formazione e quest’anno ne sono stato nominato presidente. Stiamo cercando di convogliare tutte le energie in progetti futuri per dare valore e tono al territorio. 

Visto che parli di cultura, come sei arrivato a conoscere Lunetta11? 

Quando mi hanno eletto presidente dell’associazione mi sono reso conto che questa si era staccata dal sociale, dalle persone che vivono questi luoghi. Se non si coinvolgono si è delle isole nel deserto. La prima cosa che ho pensato di fare quindi è stata quella di provare a conoscere chi nella zona stava dando valore al territorio. Ecco quindi che ho incrociato Francesco e Claudia. Lì mi ha stupito che ci fosse una realtà del genere e che pochissimi a me vicini ne conoscessero l’esistenza. Subito è nata l’idea di collaborare, in modo del tutto naturale. Dal prossimo anno spero che la loro bravura ed esperienza possa essere messa a disposizione della comunità. A livello personale mi fa un enorme piacere che due persone come loro si siano innamorate di questo territorio e che abbiano capito viceversa come farsi amare dagli autoctoni. 

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