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Benvenuti, questo è il numero cinquantuno di MEDUSA, una newsletter bisettimanale a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not

MEDUSA parla di Antropocene, dell
impronta dellessere umano sulla Terra, di cambiamenti climatici e culturali. Storie dalla fine del mondo per come lo conosciamo, ogni due mercoledì.

MEDUSA è divisa in tre parti: un articolo inedito e due rubriche, i link dei Cubetti e i numeri della Cabala. Per il resto, se volete scriverci potete rispondere direttamente a questa email o segnarvi il nostro indirizzo: medusa.reply@gmail.com. Siamo anche su Instagram.


In questo numero leggerete di miniere e raggi di sole, di Seneca e Tamigi, di forze dell’ordine e scarsa ventilazione.
MEDUSA • FATALITÀ
di Matteo De Giuli

La mattina del 4 maggio 1954 nella miniera di lignite di Ribolla, tra le colline metallifere della Maremma, ci fu uno scoppio di grisou, un combustibile inodore e incolore, miscuglio composto soprattutto da metano – e poi azoto, anidride carbonica e altri gas – un ectoplasma che infesta ogni cava di lignite ma che rimane inoffensivo almeno fintanto che esiste un circuito di areazione adeguato, finché ci sono le giuste vie di flusso e riflusso dell’aria. È un’equazione delicata: quando il grisou si combina con l’aria in porzioni tra il 6 e il 16 per cento dà luogo a una miscela tossica, infiammabile ed altamente esplosiva. Ed esplode, il 4 maggio, tra le 8:35 e le 8:45, perché nella sezione sud della miniera, chiamata “Camorra”, la ventilazione è diventata insufficiente dopo che alcuni restauri dei pozzi, in quei giorni, hanno apportato delle modifiche alle macchine per l’areazione. Senza testare il nuovo sistema, i minatori sono fatti tornare al lavoro, come niente fosse. La detonazione si propaga alle altre gallerie, raggiungendo decine di operai, alcuni dei quali rimangono schiacciati nei cunicoli che vengono giù. Di morti se ne conteranno 43.

Della tragedia di Ribolla non sapevo molto prima che minimum fax ristampasse, quest’estate, I minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, pubblicato per la prima volta nel 1956. Del libro, invece, avevo sentito parlare come di un classico della letteratura industriale, e del mito che vi si era costruito attorno ricordavo qualche storia: il fatto che in quegli anni Bianciardi fosse un giovane intellettuale di provincia, che ancora acerbo cresceva però con il mito della classe operaia, la speranza del lavoro culturale a servizio della classe operaia, ricordavo racconti dei suoi viaggi nei paesi delle miniere maremmane durante i quali avrebbe portato ai minatori romanzi da leggere, mentre Cassola, suo grande amico, legato anche lui al territorio grossetano, scrittore già affermato, con la stessa tensione etica di Bianciardi scriveva e studiava, però, da casa, dall’ufficio, buttando giù appunti nelle stanze di archivi ed emeroteche.

I primi affioramenti di carbone tra le colline della zona di Ribolla risalgono al 1835. Di lì a poco viene scavato il primo pozzo. A fine secolo nasce il primo nucleo abitativo. È una storia per certi versi simile a quella di Crespi D’Adda, che abbiamo raccontato qualche tempo fa. Crespi D’Adda è un villaggio operaio costruito dal nulla dalla famiglia industriale dei Crespi, una città ideale eppure inevitabilmente distopica, che si aggruma attorno a una lunga strada dritta: a destra la fabbrica, a sinistra le abitazioni dei lavoratori dell’opificio, in fondo, dopo un po’, il cimitero. Ribolla nacque invece come villaggio minerario per volontà della Montecatini (storica azienda chimica, poi fusa alla Edison sotto il nome Montedison, negli ultimi anni tornata a essere di nuovo solamente Edison). Il villaggio di Crespi, immerso nel verde, con i suoi spazi ricreativi, le ville, i servizi, oggi, dismessa la fabbrica, è diventato patrimonio dell’UNESCO, vestigia di un esperimento di capitalismo “buono”, paternalistico, sedativo, soffocante eppure in una certa misura illuminato (l’ultima erede, Giulia Crespi, meriterebbe un articolo a parte: fondatrice e presidente onoraria del FAI - Fondo Ambiente Italiano, negli anni Sessanta divenne responsabile economico ed editoriale del Corriere della Sera, all’epoca di proprietà di famiglia, e al quotidiano impose una svolta “a sinistra”, si fece conoscere come “zarina” e allontanò Montanelli che la definì “dispotica guatemalteca”).



Al contrario, Ribolla e Niccioleta e Baccinello e gli altri villaggi raccontati nei Minatori della Maremma nascono come luoghi alienanti, non c’è “la piazza, la fonte, la chiesa”, scrivono Bianciardi e Cassola, almeno non nel senso della “chiesa vecchia, quella dove tutti sono stati battezzati e hanno preso moglie”.  Non ci sono botteghe, spesso non c’è neanche un nome per gli abitanti: quelli di Niccioleta, che nel ’44 hanno anche subito una strage nazi-fascista (83 operai fucilati), sono per tutti soltanto “quelli che stanno al villaggio”. Alla Montecatini è sempre piaciuto così: è una grossa proprietaria terriera, ha sempre cercato di far tutto suo, e così le abitazioni che costruisce per i suoi dipendenti sono asettiche, grigie, impermeabili al muschio della vita come lo sa essere solo una proprietà aziendale, sui muri “non un manifesto, di nessun genere, né politico né pubblicitario”. 

I minatori della Maremma non è l’inchiesta giornalistica che ci si potrebbe aspettare oggi da due scrittori, è un’opera fredda, politica, una lunga e minuziosa indagine storica e sociologica, una dispensa di fatti, date e dati, più simile alle Esperienze pastorali di Don Milani o forse addirittura alla Situazione della classe operaia di Engels che alle storie dei vinti di Levi, Vittorini o Ottieri e Volponi. Bianciardi e Cassola ricostruiscono le vicende delle miniere e dei territori maremmani, partendo dagli etruschi fino agli anni Cinquanta, e trattengono quasi sempre il gusto della narrazione, lo fanno brillare solo in qualche capitolo, nelle immagini veloci di qualche paragrafo. A proposito dell’arte rabdomantica che permette di scoprire i giacimenti, scrivono:

“A volte il ricercatore fa a meno dei sopralluoghi e giura sull’esistenza di un giacimento in base all’interpretazione di un passo latino, di un nome, di una testimonianza antica. In questo caso la sua fantasia è sollecitata soltanto dalla toponomastica e dalla letteratura. Spera di scoprire un giacimento con lo stesso criterio con cui scoprirebbe una necropoli: e non a caso questi ricercatori sono stati anche etruscologi, invariabilmente. Del resto, non si chiama «arte» quella mineraria?”

Accanto a queste schegge di letteratura, il libro va avanti presentando tabelle, calcoli sui costi del carbone, descrizioni scientifiche della silicosi e delle altre malattie che affliggevano i minatori. È un racconto fieramente anti-retorico, scritto con lo scrupolo di chi redige un archivio storiografico: c’è la sequenza temporale di cento anni di lotte sindacali, contro le iniquità e le vessazioni di padroni smaniosi di aumentare la produzione. Come scriveva sull’Avvenire lo stesso Bianciardi, nel ‘53, quando già seguiva le vicende dei minatori mentre raccoglieva materiale per il libro:

“Negli ultimi dodici mesi si sono registrate 12 frane. Il nuovo direttore della miniera, che si chiama (non è uno scherzo) Padroni, e non è ingegnere minierario, ma elettrotecnico, ha appunto questo incarico: risparmiare fino alla smobilitazione”.

Dentro I minatori della Maremma c’è  la ricostruzione cronachistica delle rivendicazioni operaie che in quei paesi si infrangevano allo stesso modo contro strutture politiche e familistiche e contro gli odi incrociati e le piccole vendette tra paesi vicini (siamo pur sempre in Toscana). C’è la lista dei libri presi in prestito dai minatori alla biblioteca del loro circolo culturale di Massa Marittima: “Il quartiere di Pratolini (80 prestiti), Cronache di poveri amanti di Pratolini (70 prestiti), Un eroe dei nostri tempi di Pratolini (60 prestiti), Le novelle di Maupassant (60), Le ragazze di Sanfrediano di Pratolini (50)”.

L’esplosione di Ribolla arriva a pagina 179, la strage chiude un lavoro di ricerca lungo anni. Le conclusioni di Bianciardi e Cassola sulle responsabilità per quelle morti sono concentrate in poche battute, essenziali e asciutte, le stesse che altri si sarebbero ritrovati a scrivere per le morti del Vajont, di Chernobyl, di Bhopal.

“La sciagura di Ribolla non fu dovuta a una «tragica fatalità», ma alla consapevole inadempienza di precise norme. (…) Non è stata la fatalità, ripetiamo; la sciagura è successa perché non si teneva in sufficiente e doverosa considerazione la vita dei minatori”.
CUBETTI
#1 LOTTA CLIMATICA, LOTTA DI CLASSE
Negli ultimi giorni è nato un dibattito interno a Extinction Rebellion, in particolare nei suoi gruppi anglosassoni. Era un problema ampiamente prevedibile, per chi ha seguito un minimo la crescita del movimento ambientalista/ecologista, per ragioni che sono state riassunte con metodo da questo articolo di Dinamo Press, che vi consigliamo. Scrive Emma Gainsforth:

"L’accusa che più è stata mossa a XR è di essere un movimento bianco, middle-class, che spettacolarizza il confronto con le forze dell’ordine, e che si mostra sordo alle voci e alle istanze di soggetti diversi. [...] La confusione più grande sembra ancora riguardare questo “noi” collettivo e corale, transnazionale, che il movimento costruisce e che mira a costruire, che a tratti, tuttavia, ancora echeggia un “noi” di stampo neoliberale, un noi che si ritiene parte del problema e che è dunque spronato ad agire – individualmente – assumendosi le responsabilità di una situazione globale”. 


La questione è insieme semplice e incredibilmente complessa, nella nostra newsletter e nei nostri incontri pubblici ci troviamo spesso ad affrontarla. Da quando abbiamo iniziato, ma questo è solo un esempio, abbiamo discusso a lungo intorno all'utilizzo della parola chiave, Antropocene, così comoda e così conflittuale. Le parole sono importanti, anche e soprattutto quelle scandite alle manifestazioni.



La critica più puntuale alle contraddizioni di XR è arrivata dal suo ramo scozzese, che in un lungo post ha elencato tutto quello che non funziona, e che si può sistemare, nel movimento. Se hai poco tempo e non hai voglia di cliccare, ecco il riassunto: “se continuiamo a concentrarci solamente sui ‘nostri figli’ e non sulle persone che stanno morendo ora, rischiamo di lasciare ampio spazio all’eco-fascismo. [...] La lotta per il clima deve nominare chiaramente le cause del cambiamento climatico e delle ingiustizie sociale, che sono il capitalismo e il colonialismo”. 


Una delle forze di XR – l'assenza di gerarchie, la decentralizzazione – è anche il suo più grosso limite: la libertà di espressione e azione di qualsiasi persona si riconosca nei suoi ideali è, appunto, un'arma a doppio taglio. 

Ci sembra di capire però che la critica è stata presa per quella che era, una messa in discussione, un contributo costruttivo, e non una guerra interna o altre sciocchezze. Quello che sta succedendo può essere preso a proprio vantaggio, come uno spasmo della crescita. Ed è una buona notizia: conferma che la lotta per l'uguaglianza di genere ed etnie, per il salario, per le emissioni allo zero netto di CO2 possono e devono convivere. Possono marciare, lo stesso giorno, in centinaia di città.

[Per quanto riguarda il caso italiano, l'unico che abbiamo potuto osservare da vicino, c'è un problema a monte, che riguarda tutta la società italiana: specialmente per chi ha più di vent'anni, o chi non vive in grossi centri urbani, integrazione e intersezionalità sono concetti tragicamente alieni alle nostre reti sociali, che si tratti del posto in cui si studia o si lavora: puntualizzare che XR Italia è troppo bianca non costa niente, ma potrebbe avere poco senso.]

 
#2 FOOTE NOTE
La prima persona a scoprire la correlazione tra anidride carbonica e incremento delle temperature atmosferiche è stata una donna, nel 1856. Si chiamava Eunice Newton Foote, era di Seneca Falls (un toponimo che ci piace molto, stato di New York), ed era una scienziata e un’attivista per i women rights.

Per capire di cosa stiamo parlando: come ricorda la Public Domain Review, “la correlazione tra tra anidride carbonica e incremento delle temperature atmosferiche è uno dei fondamenti della meteorologia moderna, dell'effetto serra, e della scienza climatica”. Ma soprattutto: della nostra Cabala, dove vi aggiorniamo sempre dei ppm di CO2 che danzano nell'aria.

Grazie a Peppe L. per averci fatto scoprire questo articolo. Scriveteci pure voi, se volete, qui: medusa.reply@gmail.com.



 
#3 UN IBRIDO TRA UN CONSULENTE E UN PROFETA
È uscito in questi giorni in Italia Un Green New Deal globale, l'ultimo saggio di Jeremy Rifkin. Rifkin è un economista statunitense, un futurologo e un guru, “un ibrido tra un consulente e uno studioso, che è riuscito, nella sua oramai trentennale attività, a sviluppare una piccola, agile e redditizia impresa culturale”, per usare le parole di un vecchio profilo pubblicato sul manifesto. Ha scritto della fine del lavoro, di transizione energetica verde, di terza rivoluzione industriale, di sharing economy, di genetica, insomma di ogni questione potenzialmente rivoluzionaria, di avanguardia e di frontiera, al confine tra scienza, tecnica e società, questioni di cui Rifkin si propone di volta in volta come l’esperto da consultare. E viene consultato ogni volta, e negli anni è riuscito a strappare consulenze importanti a, tra gli altri, Commissione Europea e Cina.

“Poco importa se le sue previsioni e i trend che metteva al centro della sua attività non sempre si avveravano, anzi quasi sempre non avevano lo sviluppo prospettato”, per citare di nuovo l'articolo del manifesto. Di polemiche e critiche ne ha raccolte tante negli anni a causa del suo metodo di lavoro e dell’imprecisione delle sue profezie, a partire dall'articolo che gli dedicò il TIME nel 1989, “The Most Hated Man in Science”.

Abbiamo letto l'ultimo libro di Rifkin, insomma, e ci ha confusi un bel po’. Magari ci torneremo su, per ora per semplicità useremo questo post del Post, che ha incontrato e intervistato Rifkin dal vivo durante il tour italiano che l’ha portato anche in radio e in TV:

“Per essere un libro sul cambiamento climatico, Un Green New Deal globale parla poco dell’attuale crisi climatica. I dati principali e le più fosche previsioni sul futuro sono elencati rapidamente nelle pagine dell’introduzione. Dal primo capitolo, invece, Rifkin inizia a occuparsi di quello che gli interessa veramente: dipingere un grande affresco immaginifico su come questo “Green New Deal” mondiale si svilupperà nei prossimi decenni. Leggendo il suo libro e ascoltandolo argomentare, Rifkin dà l’impressione di parlare di qualcosa che considera sicuro, inesorabile: degli eventuali ostacoli si occupa rapidamente, oppure nemmeno li considera (in tutto il libro, per esempio, non si parla una sola volta delle proteste dei “gilet gialli”, nate dall’aumento di una tassa sui carburanti).

A Rifkin i dettagli interessano relativamente poco. Quando si tratta di spiegare come finanziare la parte statale del suo piano, per esempio, Rifkin scrive che in gran parte i soldi esistono già e quelli che mancano si potranno trovare mettendo qualche tassa in più ai supericchi e tagliando un po’ di spese militari. Anche se il libro è pieno di numeri e citazioni (le note occupano 30 pagine in fondo al volume), Rifkin non li utilizza per definire un piano concreto. (...) 

Come ha scritto Howard A. Doughty nella recensione di uno dei suoi numerosi libri sul tema, per quanto Rifkin utilizzi argomenti che appaiono simili a quelli dei teorici di sinistra più radicali, è difficile togliersi la sensazione che se Evo Morales e Alexis Tsipras sono da una parte della barricata, il business di Rifkin è dispensare consigli all’altro lato. È una sensazione difficile da togliersi anche oggi, in cui più che di automatizzazione Rifkin preferisce parlare di clima. «Per tutta la vita ho criticato vari aspetti del capitalismo di mercato», scrive Rifkin nel suo ultimo libro. «Questa volta, tuttavia, e con questo sconvolgimento, il mercato è un angelo custode che vigila sull’umanità». ”



#4 LA LETTERATURA ITALIANA A LONDRA
Per chi ci segue dall’Inghilterra: questo fine settimana al Coronet Theatre di Notting Hill si inaugura la terza edizione di FILL, il festival di letteratura italiana pensato per far incontrare e dialogare su temi di politica, cultura, migrazioni e traduzione autori italiani e stranieri. Inaugurato nel 2017 dopo il referendum sulla Brexit da un gruppo di scrittori, traduttori, giornalisti e ricercatori espatriati in Inghilterra, la line up di quest’anno include, tra i tanti, nomi come Rachel Cusk, Edoardo Albinati, Ece Temelkuran, Laura Pugno, Matteo B. Bianchi  e Francesco De Carlo.

Segnaliamo in particolare “Hot Art. Making Art in a Warming Planet” (domenica 3 novembre, ore 16), in cui Lucia Petroiusti  (coordinatrice del progetto General Ecology della Serpentine Gallery e curatrice del padiglione Lituania vincitore del Leone d’Oro alla Biennale Venezia 2019) e Alex Cecchetti  (artista, coreografo e poeta) dialogheranno su come la crisi climatica stia influenzando il mondo dell’arte e il nostro modo di raccontare il declino del pianeta
.

CABALA
L’Italia è il terzo consumatore mondiale
di acqua in bottiglia.


Il 62% delle famiglie preferisce l’acqua in bottiglia, per una spesa di circa 240 euro l’anno.

Il fatturato delle sole aziende imbottigliatrici è stimato in 2,8 miliardi di euro, di cui solo lo 0,6% arriva nelle casse dello Stato.

Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 408,29 ppm (parti per milione) di CO2.
E questo è tutto: tra due mercoledì, la prossima edizione di MEDUSA.
2019 © DE GIULI - PORCELLUZZI 






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