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Benvenuti, questo è il numero cinquantatre di MEDUSA, una newsletter bisettimanale a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not

MEDUSA parla di Antropocene, dell
impronta dellessere umano sulla Terra, di cambiamenti climatici e culturali. Storie dalla fine del mondo per come lo conosciamo, ogni due mercoledì.

MEDUSA è divisa in tre parti: un articolo inedito e due rubriche, i link dei Cubetti e i numeri della Cabala. Per il resto, se volete scriverci potete rispondere direttamente a questa email o segnarvi il nostro indirizzo: medusa.reply@gmail.com. Siamo anche su Instagram.


In questo numero leggerete di Paolo Volponi ed elettrocardiogrammi, di merda e battiti per minuto, di Vietnam e galassie, balene e lampioni.
MEDUSA • IRRITABILE
di Matteo De Giuli

Nel 1974, nove anni dopo il premio Strega vinto con La macchina mondiale, Paolo Volponi pubblicò Corporale, un anti-romanzo caotico e frammentario che insegue le paranoie del protagonista, Gerolamo Aspri, ex dirigente industriale con l'ossessione della bomba atomica. Come scrive Emanuele Zinato: “in realtà la bomba è simbolo della nuova insopportabile società tecnocratica, a cui il protagonista cerca di sottrarsi”. La metafora della catastrofe imminente di Corporale diventa piena apocalisse due anni più tardi, con Il pianeta irritabile, una favola fantascientifica che racconta del viaggio impossibile di una scimmia, un’oca, un elefante e un nano che, nel 2293, investiti da un’esplosione atomica colpevole di avere spazzato il circo dove lavorano e vivono, si mettono in marcia alla ricerca di un nuovo mondo.

Volponi è stato prima un poeta e poi un manager e solo dopo, a quarant’anni, un romanziere (divenne infine anche un politico). Nel 1991 vinse il secondo premio Strega – ed è ancora l’unico a esserci riuscito – con La strada per Roma. Della sua biografia vengono inevitabilmente ricordati – prima ancora dell’amicizia con Pasolini e dalla sua consulenza per la stesura di Petrolio – i venti anni che passò alla Olivetti, quella di Adriano, vale a dire la Olivetti “crogiolo di cultura” e di welfare industriale, dove si sperimentò una visione sociale e solidare di sviluppo partecipato e innovativo. Lì Volponi lavorò come collaboratore, poi come direttore dei servizi sociali, direttore dell'intero settore delle relazioni aziendali e se ne andò, come racconta Massimo Raffaeli in una bella puntata di Wikiradio, solo quando gli venne proposto e poi subito dopo negato il ruolo di amministratore delegato unico. Divenne consulente della Fondazione Agnelli, ma fu costretto a lasciare l’incarico quando, da repubblicano, annunciò la sua adesione al Partito Comunista Italiano.

“Nella fabbrica bisogna starci giorno per giorno, avvelenarsi gradatamente; se uno se ne libera anche per un breve tempo riesce a vederne tutti gli orrori”, scrisse in Memoriale. Ma Volponi rimase convinto, anche dopo la fine dell’utopia olivettiana, della necessità di un’industria moderna, aperta alle istanze dei lavoratori. Con gli anni però si disilluse nei confronti delle nuove esigenze del capitalismo finanziario, quello che porterà anche gli industriali italiani “illuminati” a non pensare più “all’industria alla produzione, al rapporto della fabbrica con il territorio”, ma solo a essere “più celeri, più veloci: è più importante vendere che produrre, guadagnare che fabbricare”.



Torniamo al Pianeta irritabile. Il cammino dei quattro protagonisti (animali, post-umani tutti e quattro, dato che, nei codici della favola, anche il nano è preso come simbolo di uomo a metà tra natura e cultura, tra viscere e cervello) è confuso, insicuro, “senza interrogativo e senza una sola speranza sulla durata e sulla meta”. I mesi passano veloci, a volte in una sola riga, e d’altra parte il tempo non ha più alcun senso, dato che il nano si ostina a “comporsi un’ora contando sette, otto volte fino a sessanta; e poi ancora di seguito un’altra ora: e via un’altra ancora fino a dodici, e poi altre dodici, uguale a ventiquattro… e ventiquattro misurato nella stanchezza dei passi, e perfino nell’aria oltre che nel brontolio dello stomaco”.

I paesaggi scorrono in una carrellata psichedelica: colline di cenere, pianure di polvere rotte da crepacci e da buche, poi erba alta e selvatica, lacustre, che si slancia in cielo con grandi lame. Poi, senza che il lettore se ne accorga, si passa a un orizzonte montagnoso, in una continua apocalisse post-apocalisse, tra esplosioni, blackout, terremoti. I quattro vedono all’orizzonte “montagne blu di ghiaccio” e attraversano un bagliore di lattice giallastro, tra stelle e lune che nascono e scompaiono. Si ritrovano a viaggiare sopra un nastro trasportatore, su una zattera che attraversa una palude dove affiorano topi annegati, mentre il cielo si fa buio, e poi tra i ghiacci, dove si calano sotto terra e rovistano tra resti di industrie e fabbriche, e cumuli di città storiche, regni in cui il fiato si deposita per terra e dopo poco rifiorisce “come un muschio azzurro”, mentre tutt’attorno piove, a intermittenza, fuoco, sabbia rossa, pece, e solo raramente un po’ d’acqua.

L’oca scagazza ovunque, la scimmia è presa da una invincibile smania onanista, il nano è tenuto al guinzaglio dalla ciurma, che “in preda all’alcol, alla nausea, alla diarrea”, viene guidata dall’elefante, che sente e cerca la presenza del nemico, perché si scopre alla fine che è quello lo scopo del viaggio, sconfiggere il nemico, un nemico umano, dice l’elefante, perché solo l’elefante può fiutare la sua presenza tramite “una parte del cervello a scatola, come una radio, la cui potenza è aumentata dal taglio delle zanne”.

Le vicende dei quattro sono alternate da ricordi e balzi nel tempo, rimandi a un periodo pre-apocalittico ma comunque catastrofico e senza speranza. Vengono però rievocate con particolare nostalgia le gesta dell’Imitatore del canto di tutti gli uccelli, un’altra delle maestranze del circo, un uomo abile, generoso e dai molti talenti, che divenne imitatore di uccelli, appunto, e assunto dal circo, dopo essere riuscito a trafugare dall’archivio di un “centro elettronico militare” una scatola di metallo nero con su scritto “canto degli uccelli - 1998 -2198”. Un reperto unico in un’epoca in cui gli uccelli erano ormai quasi tutti estinti.



Come forse si intuisce da questo riassunto, Il pianeta irritabile è una parabola allucinata, un’avventura delirante all’interno di un incubo di piena marcescenza. Ma è anche, nelle intenzioni dell’autore, il racconto allegorico di come la modernità, il capitale assunto a legge di natura e la vita post-industriale non lascino più alcun posto per l’essere umano.

Nell’universo del dopo-bomba, sopravvive infatti questa animalità anarchica, vitale, disgustosa e folle (nei momenti di maggiore felicità, durante il viaggio, il nano si ficca l’oca, prendendola per il collo, giù in gola, fino a ferirsi). Ma sopravvive anche lo spettro del mercato e del denaro, sopravvive il Capitalista Supremo, ultimo capo degli uomini sopravvissuti, personificato nel Generale Moneta: è lui il nemico dell’improbabile armata di quei quattro – si scopre solo alla fine. Un essere umano che si mostra ancora più folle e violento degli animali e del nano. 

Oggi Volponi è considerato datato, scaduto, distante, imprigionato in una stagione culturale irrimediabilmente trascorsa. Il pianeta irritabile, in più, è forse il suo libro più indigeribile, di sicuro il meno analizzato, è una strana miscela di fantascienza e simbologia politica, un guazzabuglio di visioni, di quadri, più che di vicende, in cui in effetti a volte è difficile orientarsi. Eppure è un romanzo straordinario, forse proprio perché alieno, in cui è difficile non ritrovare qualcosa delle atmosfere stranianti del post-esotico di Volodine o del weird di VanderMeer oggi tanto osannati.

Il gruppo di quattro freak post-umani, unendo le forze, e grazie all’insperato aiuto del redivivo Imitatore del canto di tutti gli uccelli, riesce alla fine a sconfiggere il Generale Moneta in un finale fatto di sbudellamenti, merda e corpi schiacciati. Una conclusione nient’affatto consolatoria, anche se con un po’ di sforzo ci si può leggere “l’enunciazione di una flebile speranza”, come ha scritto Matteo Moca sul Tascabile, nel superamento “di una società ciecamente dedita al profitto individuale a discapito dei legami, a favore di una nuova infatuazione per un desiderio collettivo e condiviso”.

“Dio è con me. La storia è con me.” dice Moneta al nano, prima dello scontro finale. “Vuoi forse la fine della civiltà?”.

“Tu non sei un uomo, né vero né finto; sei solo l’uomo alla fine dell’uomo”, risponde il nano a Moneta. “L’uomo che ha snaturato e lasciato l’uomo, sei tu. Quindi sei uno stronzo, solo uno stronzo. Lo stronzo più stupido e scemo cagato da sgherri e gendarmi: cagato in fretta in fondo al corridoio di una caserma coloniale”.
CUBETTI

#1 SPEGNI LA LUCE
Gli scarabei stercorari girano il mondo accompagnandosi a una pallina di cacca che usano per cibarsi, riprodursi e nutrire le loro larve. Si muovono soprattutto di notte: per orientarsi, si è scoperto qualche anno fa, si aiutano con la luce della Via Lattea, e delle stelle. Se ci sono poche stelle, o nessuna, iniziano a girovagare seguendo tracce disordinate, complicando il processo riproduttivo e aumentando il rischio di diventare delle prede.

Una capacità – quella di orientarsi con le stelle – che è nota tra gli uomini e tra gli uccelli, ma che non era mai stata attribuita agli insetti. Lo scarabeo stercorario potrebbe non essere l’unico: la vocazione astronomica di piccoli artropodi che trascinano palline di cacca ci aiuta a capire quanti e quali traumi possano nascere dall’inquinamento luminoso. L’estinzione di massa degli insetti è dovuta a un intreccio di cause: la perdita di habitat, l’uso sregolato di fertilizzanti e pesticidi, le specie invasive, il riscaldamento delle temperature… ma di queste cause, l’abuso della luce artificiale resta il fattore di rischio più sottovalutato.

La pianura padana, per esempio, è illuminata come il corridoio di un ospedale, e possiamo soltanto immaginare la porzione di biodiversità sacrificata da queste luci. Vago standard pasoliniano e forse un po’ patetico, ma inutile e doveroso, ricordare i colori semplici di lucciole intrappolate nelle manine degli anni Novanta.


#2 AVERE UNA POLTRONA AL POSTO DEL CUORE
La foto qui sotto mostra la prima volta in cui un gruppo di esseri umani, animali che esistono da circa 200.000 anni, è riuscito a piazzare un elettrocardiogramma su una balena, animali che esistono da circa 40.000.000 di anni.

(NB: i primi stanno riuscendo a fare estinguere i secondi. Come se una neonata di un paio di mesi riuscisse a strangolare una trentenne.)



Comunque: l’informazione più interessante raccolta dall’esperimento di Jeremy Goldbogen (Stanford University) è che il battito cardiaco della balena – misurato nell'arco di 24 ore – passa da un estremo all’altro: da frequenze bassissime al loro opposto. Dalla bradicardia alla tachicardia, senza la via di mezzo che chiamiamo “bpm a riposo”.

Quando la balena si immerge fino a 200 metri di profondità per cibarsi riesce a contrarre il cuore soltanto tre o quattro volte in un minuto. Immaginatevi un battito cardiaco poco prima della foto qui sopra, e un altro più o meno adesso. E un altro quando avrete finito di leggere il cubetto. 

Una curiosità: secondo David Attenborough il cuore di una balena “è grande come un'automobile, e alcuni dei suoi vasi sanguigni sono così ampi che potresti nuotarci”. In realtà il cuore di un esemplare adulto è grande come una di quelle macchinette da golf, o una poltrona spaziosa. Le sue arterie possono arrivare alla larghezza di una testa umana, ma non potremmo nemmeno strisciarci dentro. Ci dispiace. 

Ecco, ora immaginate un altro battito.

#3 MEDUSA TIPOGRAFICA
Si è concluso “Anthropocene Working Type”, un corso di type design che è anche “un percorso didattico a cura di Alessio D'Ellena insieme a César Bourgeois (Superness), una proposta di progettazione speculativa dove il carattere tipografico è utilizzato come *medium* di lavoro. Le font si presentano come successioni e combinazioni di segni, editati velocemente durante il corso. Prototipi non definitivi, frammenti di oggetti tipografici che ipotizzano scenari sci-fi. Alternative non lineari che danno forma a scritture di universi ipotetici non del tutto comprensibili. 12 file font interpretano il concetto di Antropocene tramite tracce vettoriali abbozzate come note personali e intime”.

Tutto questo è in mostra da Verso Libri, insieme a una bibliografia che ne costituisce il display fisico. Le copertine dei libri sono state colonizzate dalle forme tipografiche progettate dai ragazzi del corso: “le scelte grafico-editoriali vengono sovrascritte dando vita ad una nuova collana ipotetica. Nicolò Porcelluzzi e Matteo De Giuli hanno curato la selezione di titoli, una lista di testi e saggi polarizzati attorno al termine Antropocene”. Colpo di scena: adesso è tutto chiaro. Per chi passa a Milano allora, consigliamo di fare un salto da Verso.

La bibliografia include: Manifesto Cyborg di Donna Haraway, La natura è un campo di battaglia di Razmig Keucheyan, La sesta estinzione di Elizabeth Kolbert, Piccola cosmogonia portatile di Queneau, La fine del mondo di Ernesto De Martino e tanti altri.



CABALA
Dopo 30 anni, in Vietnam è stato di nuovo avvistato un esemplare di tragulo dal dorso argentato (Tragulus versicolor – i traguli sono chiamati anche cervi-maiali o cervi-topi).

 I 30 parchi nazionali del Vietnam erano un tempo centro nevralgico per la biodiversità delle specie selvatiche. Oggi sono minacciati da caccia, contrabbando e assenza di politiche di conservazione.

Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 410,45 ppm (parti per milione) di CO2.
E questo è tutto: tra due mercoledì, la prossima edizione di MEDUSA.
2019 © DE GIULI - PORCELLUZZI 






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